martedì 18 giugno 2013

Una stanza tutta per Emily






Si dice che, nei suoi ultimi giorni, la poetessa Emily Dickinson vivesse rinchiusa in una stanza da cui testardamente rifiutava di uscire per incontrare persino i familiari. 

I biografi hanno abitualmente archiviato l’atteggiamento come una delle solite manifestazioni della categoria artista “ tutto genio e sregolatezza”. Una pagina del diario della scrittrice, però, illumina il mistero. 

La Dickinson afferma che la sua sensibilità per la parola era divenuta così esasperata al punto che un sussurro produceva in lei lo stesso effetto di rimbombo di un ciottolo lanciato dentro un pozzo. Quindi viveva immersa nel silenzio che per lei, sotto ogni aspetto, era diventato una questione di sopravvivenza. 

A cosa attribuire questa particolare malattia dell’anima? Accettiamo per un momento la premessa che un poeta, o un qualunque resistente del discorso, sia un fenomeno opposto a quello dell’inflazione linguistica, cioè quel processo che comporta la diminuzione del potere di significato della parola e che conduce ad anomalie curiose come il rafforzamento “ la vera verità”, o i falsi superlativi come “ governissimo”, o i paradossi della comunicazione “ l’unico governo possibile” (poiché se si tratta dell’unico governo possibile, se ne deduce che in realtà siamo in una dittatura…). 

A questo punto resta da chiedersi cosa sia l’opposto della sclerosi linguistica, di questa morte annunciata d’ogni significante di cui stampa e televisione ci offrono quotidianamente vari esempi. E’ probabile che intere galassie si concentrino nella parola di un poeta, nubi semantiche trasportate da un fiato. Il contrario potrebbe essere una concentrazione di significato tale da aumentare il peso specifico delle parole, tanto da reificarle, in altre parole tanto da farle diventare cose. 

Chissà questo spieghi l’esasperazione di Emily Dickinson per la sventatezza con cui si trattavano le parole nella sua epoca, che non è poi molto diversa dall’incuria con cui oggi costruiamo i nostri discorsi. La differenza sta nel fatto che per i distratti, nella migliore delle ipotesi, la decostruzione del linguaggio è solo una serie di parole usate in modo poco appropriato, per un poeta si tratta di cose reali, di oggetti letteralmente perduti, come quando entrano i ladri in casa e fanno a pezzi il vostro ambiente familiare. 

Non possiamo, dunque, che opporre un silenzio civico a questo fare, che non è rassegnazione, ma illuminata resistenza. Staccare i fili della televisione, non comprare più i giornali. Lo dico perché un mese addietro, al momento del governo delle larghe intese, Travaglio dichiarava: “ prepariamoci al pensiero unico di stampa e tv, alla canzone monotona a reti ed edicole unificate”. 

Da allora una concordia imperiale si è imposta in una lingua stemperata, senza nerbo, suadente dove non ci sono opposizioni ma parole di larghe intese. Nulla è più violento di questa apparente pace, niente è più barbaro di un sistema con mafie corleonesi, bancarottieri, evasori fiscali, ladri e speculatori che usa parole corrotte. 

Comprendo così cosa deve avere provato la poetessa nei suoi ultimi giorni, la violenza del pozzo, del sasso e dei cerchi concentrici. E devo ammetterlo: mi ostino a pensare che la poesia è la resistenza delle parole, la loro persistenza acuta, la loro vocazione più dolorosa. In estremo tutto quello che abbiamo al posto delle cose, oggi.


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