mercoledì 31 luglio 2013

L'isola degli asini




In estrema sintesi si può affermare che è letteratura tutto ciò che si oppone al marchio, al linguaggio del logo, al turismo di massa su luoghi fragili. Montale sponsor del male di vivere. 

La letteratura mercato trova nella scuola una delle sue principali artefici. La ragione è che alla scuola è stato sottratto il tempo. Tempo della riflessione, dello scambio, della sedimentazione. Al suo posto si è imposta la burocrazia, che è una dimensione temporale stranizzata, dove il piccolo tempo, quello della campanella, si alterna con il grande tempo, quello delle verifiche, degli scrutini, degli esami finali. 

Si è così arrivati ad un sistema dove una massa di abusivi edilizi (i critici, gli studiosi, gli autori dei libri di testo) impongono il loro paesaggio letterario agli studenti in modo più o meno autoritario, là dove dovrebbe esistere solo la spaziatura delle parole e la loro intima architrave. Si creano lettori, nel migliore dei casi, che non commettono alcuna stoltezza. Innocui ruminanti, masticatori di un cibo già digerito da qualche altro stomaco. 

Al contrario, chi ritorna al testo non conosce mai, a priori, il nome delle cose. Il suo punto di partenza è la cecità degli angeli di cui parla il Corano. Chi impara queste pessime abitudini, legge e difficilmente confonde la parola con una superficie. 

Ora, per dire, si può parlare di green economy esclusivamente per vederla ridotta al solito logo: un mondo di coltivatori d’orto. Che è uno stile per banalizzare e schernire. Di creare un mondo di nike, apple and coke. Una maniera come un’altra di osannare i mercati. 

Lo sviluppo sostenibile è invece una riflessione seria e profonda sul mondo capitalista, a partire dalle sue critiche principali: l’idea che l’economia abbia soppiantato la politica ed esautorato il potere dei governi, che la crescita, i tagli allo stato sociale, le privatizzazioni, le sovvenzioni alle banche, la libera circolazione dei capitali non siano la soluzione ad un mercato che implode e ci nega ogni conquista civile, che ogni popolo abbia il diritto di scegliere se pagare o no i debiti ingiusti. Tanto per citare qualche caposaldo. 
 
Tra gli altri principi portanti della decrescita felice, c’è l’invito a riappropriarci degli spazi pubblici. Spazio che è diventato sempre più esiguo con il passo degli anni. A ben vedere, infatti, le nostre dimore prima finivano ben oltre la porta di casa, includendo spesso il quartiere e la strada. La riappropriazione di piazze, parchi e centri in disuso include l’idea di superare le barriere architettoniche invisibili della ricchezza, classe sociale, religione, orientamento sessuale ed etnia che siano di ostacolo alla condivisione sociale dei luoghi. 

Non è una banalissima idea romantica, dunque, quella che ha innescato le rivolte in Turchia contro Erdogan (gli alberi da abbattere nel Gezi Park) ma una precisa coscienza critica che ha ispirato un popolo. Certo, di fronte ad esempi come quello della rivolta turca, uno poi si immagina chissà che gesti eclatanti per avviare il contro pensiero. A volte basta invece un’idea semplice, a portata di mano. Come quella del circolo di lettura itinerante L’isola degli asini, in Sicilia. 

Il blog lo trovate in internet e vi spiega meglio di me l’idea. I circoli di lettura sono un fenomeno piuttosto diffuso in Francia e in Inghilterra. Si tratta di appassionati di letture ed arti che a scadenza periodica si danno appuntamento per commentare un libro, abbinando a volte la letteratura ai vini o al cibo. L’idea alternativa dell’Isola degli asini è stata però quella di aggiungervi una nota personale, una pensata siciliana. O da green economy, se volete. 

I lettori, infatti, non si incontrano all’interno di un circolo o di una casa privata, ma sulle piazze, gli slarghi o i crocicchi di un paese che varia di volta in volta, portandosi dietro una sedia di casa. Si commentano i libri scelti, si discute, a volte si mangia. I curiosi si fermano, ascoltano, sovente partecipano. Il testo respira, la lettura si espande, il paese torna ad essere quello di una volta, luogo di incontro, di scambi, di chiacchiere. Si scoprono nuovi angoli di osservazione, cambi di fronte e di architettura visuale. 

Si fa letteratura, luogo tra i luoghi declinato.

venerdì 19 luglio 2013

Orologio dell'amore





Fraser, nel suo delizioso libro Il tempo: una presenza sconosciuta, ricorda come le varie culture abbiano creato modi diversi per scandire il tempo. 

Narra, così, di un orologio cinese, una tavola di legno quadrata, con diverse scanalature a forma di labirinto. In ogni incisione si versava una mistura d’incenso che bruciava in un paio d’ore (uno shih, l’ora cinese equivalente a due ore occidentali) emanando il suo profumo, che era diverso a secondo della scanalatura. 

Ogni tratto del labirinto corrispondeva ad un periodo di tempo equivalente e portava il nome di uno degli animali dell’oroscopo cinese. In questo modo l’ora del drago aveva una fragranza diversa dall’ora della scimmia. 

Dei tempi, sul tempo. Altra cosa è l'orologio dell'amore, di antichi sentimenti e nuovi così sapiente. 

Buone vacanze, amici fantabucanieri, Ci risentiamo ad agosto e grazie per le 943 visite in appena tre mesi di vita blog

mercoledì 17 luglio 2013

Critica fusion



Da qualche anno, per lungo andare e frequentazioni discutibili con i libri, sarà capitato a qualcuno di patire lo sperpero maligno, quel particolare stato dell’animo che ti inclina a chiedere a cosa sia servito studiare i lirici greci o metti la letteratura russa. Questa sovrabbondanza, così difficile da collocare nel tuo piccolo selciato. 

Se questo qualcuno poi è un insegnante la situazione peggiora, perché non ci sarà studente, non ci sarà lezione in cui questa domanda non assumerà le proporzioni del cadavere nella stanza del dramma di Ionesco. Andrà crescendo ogni giorno, fin quando non riempirà di funghi e muffa ogni parete. 

I critici letterari si tengono lontani dal quesito, troppo impegnati a passeggiare per i boschi narrativi o a raccontare le prodezze della sineddoche in Balzac. Un’accademia ha costruito un mercato esclusivo, per pochi eletti, che rende piuttosto bene e che crea status. Dove la letteratura, quando serve, è un microscopio di passioni tristi e le antologie una clinica per cronici depressi. 

Per me, un solo giorno trascorso a scuola così discettando e ne uscirei viva come il corpo di Cesare tra le mani dei sicari. Motivo non indifferente per cui la critica mi diventa meticcia e pasticciata. Contaminazione, se vi piace.  Un luogo che si attraversa, un solo paesaggio urbano e globalizzato, dove non è possibile separare le favole di Esopo dall’abuso edilizio, dove le rime baciate si comportano come rifiuti tossici, la metonimia vuol dire zingaro e frontiera. 

Davanti ai miei studenti mi è più incline la critica dei misti, che predilige la tradizione orale a quella scritta. Funziona come i baracchini dello street food che i ragazzi conoscono per messaggio, perché altri ne parlano bene, perché un amico li frequenta.  Passando parola. Si vuole sapere che ti ha provocato un testo, che nutrimento ne hai avuto, il qualcuno di significativo che vi hai conosciuto o l’avventura che ti ha cambiato per sempre la vita. Il testo ha mille testi, perché mille e più sono le sue letture. 

Di voce in voce il suo punto di partenza non è il brano narrativo, ma il narcotraffico e gli abusi del cibo. E’ critica impura, presenta lo stile di Flaubert come un eccentrico esempio di bulimia alimentare, le poesie di Tennyson come un vero e proprio caso di coltivazione da oppio. Ben lontana da trattare la letteratura come se fosse un’isola, astrazione, una deriva matematica. 

Perché poi la meraviglia che gli studenti non amino la scuola? Architettura divisa e frammentata in compartimenti stagni: l’ora di chimica, di religione, di fisica, di inglese. L’identità si spezza, perché non facciamo critica ecologica, praticantato in grado di invadere i campi semantici. Un modo di leggere che non usi più la fisica euclidea, di linee parallele e che mai si incontrano, per descrivere i fenomeni letterari, ma teoremi geometrici, casi botanici, eventi politici e pratiche economiche. 

L’analfabetismo culturale, dopo quello di base (saper leggere e scrivere) e quello lavorativo (avere competenze in grado di svolgere una professione), è stato definito come l’incapacità di interpretare e capire il proprio ambiente. E’ analfabetismo culturale non saper comprendere una sigla come CGIL o ignorare cosa sia una commissione parlamentare. E’ da questi dati oggettivi che bisogna partire per capire qualcosa di Socrate. Non il contrario. 

martedì 16 luglio 2013

Penelope non abita più qui




Gira nell’oceano internauta un breve saggio intitolato “L’emigrazione ecuadoriana: un’analisi di genere” di Chiara Pagnotta. 

La studiosa vi afferma che l’emigrazione ecuadoriana verso l’Europa è iniziata soprattutto dopo la crisi economica del 1998 e si è diretta prevalentemente verso la Spagna e l’Italia. In Italia si è concentrata in tre città (Roma, Milano e Genova) divenendo un fenomeno urbano. 

Ciò che caratterizza questo tipo di migrazione è il fatto di essere prevalentemente femminile. Le donne viaggiano da sole, poi in un secondo periodo, ma non sempre, la famiglia si ricostituisce con l’arrivo dei figli e del marito. Si tratta di una migrazione che si svolge tra “ due luoghi e che scompone e ricompone i ruoli e le relazioni del femminile e del maschile”.

La migrazione, sottraendo in parte le donne al controllo familiare, rappresenta infatti una sfida al modo tradizionale di intendere il nucleo domestico. “Contemporaneamente, attraverso il canale d’informazione che si sviluppa per mezzo della rete migratoria, le donne, lontane dalla sorveglianza dei familiari, si trovano, inserite all’interno di uno strumento di controllo comunitario ricreato nei paesi d’immigrazione”, in questo modo, tra il paese d’origine ed i differenti paesi di arrivo viaggiano le notizie ed i pettegolezzi riportati ai mariti sulla condotta sessuale delle mogli. 

Così viaggiare è non viaggiare, emigrare non altera il dovere della cura e l’educazione dei figli, che continuano ad essere pensati come compiti delle donne-madri anche nella migrazione. D’altra parte la conquista di un maggior peso economico non modifica le relazioni di potere tra i generi. 

Spesso il marito permette alla donna di partire perché intravede il guadagno economico che gli deriva dalle rimesse inviate dalla moglie. In altre situazioni accade che la distanza non modifichi le relazioni violente di coppia, ma anzi, le stesse donne tendono a ricrearle nel paese di arrivo. Segno che i confini della famiglia per le donne sono molto più ampi che per gli uomini. 

Sbaglieremmo, però, a pensare che si tratti di una caratteristica esclusiva dell’Ecuador, poiché al contrario investe molti flussi migratori che trovano impiego nel settore dell’assistenza e in quello delle pulizie (taccio per il momento quello del sex business) al punto da spingere gli studiosi a parlare di femminilizzazione dell’emigrazione. 

Questo modo di viaggiare ha pochi corrispettivi nel mondo del mito, più che a Ulisse rimanda ad Enea il quale fuggendo da Troia si carica il padre Anchise sulle spalle. E’ un modo di andare e disandare tragico come quello del Vecchio Marinaio di Coleridge, costretto per la sua fatale maledizione a ripetere lo stesso racconto ad ogni viandante, un racconto che nel caso delle donne si traduce di frequente in una storia di violenza e di soprusi. 

Tuttavia la peripezia dei luoghi al femminile è qualcosa di più e qualcosa di meno, dove le metafore e le figure retoriche della letteratura, che è solo un modo per dire la storia, sono come al solito silenti. 

Il corpo delle donne, sottoposto allo sfruttamento economico e alla mercificazione, diventa uno specchio del viaggiare paralizzato delle culture occidentali, d'una società maschile e capitalista che replica se stessa in ogni luogo. Società di uguali case, di medesimi negozi, di ruoli identici nel cuore delle regioni più lontane. 

Qui e là dove si spostano gli oggetti, non più le persone. Presso le nostre dimore, dove soltanto le cose sono pienamente e di diritto erratiche: i capitali, le fabbriche, le armi. E le tazze di porcellana.

domenica 14 luglio 2013

La signora può tornare





Non si può che attribuire un ruolo positivo all’attuale classe politica italiana nello sviluppo delle lettere e del bello stile. Un contributo decisivo nella creazione di una lingua dove il possibile diventa l’impossibile, una sua epica categoria. 

Lo stile cardinalizio con cui Letta annuncia: “ La signora può tornare”, così onirico e surreale, che suona tanto come un benigno : “ Concediamo ai ciechi di vedere e agli zoppi di camminare”, non può che avere come suo corrispettivo, in un vero pezzo da teatro dell’assurdo: “ La signora in questione fa sapere che alla democrazia italiana, preferisce la dittatura in Kazakistan”.

venerdì 12 luglio 2013

Una villa estiva in Lapponia




La sinistra italiana che tale ama definirsi, sinistra, rivendicando per sé il monopolio del termine, incapace come i Quadrati e Triangoli di Flatland di concepire qualunque dimensione che non sia la piattezza, è un po’ come la villa estiva in Lapponia di cui parla Hoffmann ne “Il vaso d’oro’’, o come “ l’ateo di ascendenza puritana “ termine con cui Lovecraft si divertiva a descrivere se stesso. Un non sense, una schizofrenia del linguaggio oltre che una pratica di personalità multiple e recidive. 

Non che questa sinistra disdegni altri tipi di linguaggio fantastico, ai margini della follia. Che so “il pelo peloso” del Basile scrittore o la “zuppa zuppetta” di carrolliana memoria. Una certa tendenza la inclina al barocco, che è arte di arenaria, di terre fragili, amante delle doppie scale in grado di condurre alla medesima entrata. Simula la figura (mai con Berlusconi), illude con il trompe l'oeil (Berlusconi non è Stato), è gioco di specchi e di parvenze (il mai del mai che si promise) 

La sinistra italiana che naturalmente non è sinistra, ma prende se stessa come punto cardinale, zenit assoluto rispetto al quale gli altri hanno da autocertificarsi, da identificarsi geometricamente e collocarsi come creature politiche, non disdegna scene madri (quelli che nessun altro governo era possibile), grandezza morale (quelli che si sono presi la responsabilità di governare), agnizioni (quelli che gli altri sono tutti fascisti), colpi di scena (gli eroici sicari di Prodi e Rodotà).

Se per ogni autore è possibile definire un lettore, Hemingway e i cultori dell’altrove, Proust e i suoi labirintici seguaci, che pensare degli amanti di questa lingua poliforme, centauro dalle mille teste, trionfo d’ogni limite linguistico? 

Devono essere quelli del divisionismo, nuova corrente letteraria prima che politica, dal principio retorico mai dividere chi non divide, mai separare chi non separa. I cultori della lingua rotonda, cerchiobottista, moneta a due facce, vuota da una parte, ma piena di odio e livore per chi ne ha nausea.   

martedì 9 luglio 2013

Lingua, Terra dei fuochi






E’ curiosa. L’ingenuità con la quale pensiamo che il contagio di una deriva morale ed economica si fermi a certi livelli, senza coinvolgere altri aspetti della società. Il meccanismo, chissà interessato, con cui ci si illude che l’illegalità tocchi la politica, il sindacato, i partiti ma non la lingua che utilizziamo ogni giorno. 

Anche il codice linguistico ha la sua Terra dei Fuochi, la vasta area tra i comuni di Qualiano, Villaricca e Giugliano in Campania dove la camorra per anni ha versato rifiuti tossici, nella maggior parte provenienti dal nord e il cui nome si deve ai cumuli di sostanze nocive che vengono incendiati ai bordi della strada. O meglio ne possiede la logica perversa. 

Ciò accade quando anche la lingua produce residui pericolosi e, trovandosi nell’impiccio di eliminare le sue scorie, innesca processi di rimozione per sotterrarli lontano dai propri confini. Quasi fosse inevitabile alla materia umana produrre rifiuti, quello stato particolare delle cose che potremmo definire: la natura critica degli oggetti. 

Prendiamo la parola “ lavoro” che, in un certo periodo storico, aveva alcuni significati nella lingua italiana: base della Repubblica, dignità, salario, diritti. E si portava dietro le sue correlate metafore di antagonismo: l’emigrazione, le fabbriche del nord, la Svizzera, Piazza Fontana. Cosa può significare “ lavoro” oggi dopo i fatti dell’IlVA, i barconi di Lampedusa, i licenziamenti, le fabbriche dismesse e rimontate in Cina, i mercati metafisici del denaro? Spesso una parola di cui vergognarsi e difficile da immaginare come principio portante di una qualsivoglia repubblica. 

Se la lingua si modifica, anche la critica linguistica dovrebbe cambiare in perfetto stile casalese, adibito ai rifiuti. Ammettere che non c’è più frattura tra i propri domini e lo stile pacchiano con cui il capo clan Schiavone Sandokan aveva arredato la sua villa tra ori, specchi e vasche tardo impero.

E inoltre bisogna attrezzarsi per i contagi e le malattie. La critica è contaminata, inquinata, tossica ma non per colpa sua. 

E' impura perché sa di muoversi in un ambito in cui il personaggio dello stakeholder descritto da Saviano, laureato, buona presenza, specializzato in politiche dell’ambiente che sa come trattare i rifiuti tossici, come aggirare le norme, come proporre alla comunità imprenditoriale lo smaltimento dei liquami a basso costo e in modo illegale, è qualcosa di più di una figura legata alla criminalità. 

Col tempo ho imparato a vedere con gli occhi di uno stakeholder. Uno sguardo diverso da quello del costruttore. Un costruttore vede lo spazio vuoto come qualcosa da riempire, cerca di mettere il pieno nel vuoto, gli stakeholder pensano invece a come trovare il vuoto nel pieno. 

Lo stakeholder è anche un arbitrio stilistico. Una figura retorica per una lingua che rimuove, che si fa complice e non dice più nulla. Di una malattia che è linguistica ma solo perché è riflesso di una realtà sociale: sindrome del vuoto nell’apparente pieno.


martedì 2 luglio 2013

Di autori, chimere e fantastici unicorni



Si potrebbe affermare, sotto certi punti di vista, che l’autore come tale in ambito artistico è un’invenzione come le fantastiche chimere o gli eleganti unicorni.

E’ il 29 maggio del 2013, si celebrano i funerali laici di Franca Rame. Sul palco Dario Fo recita un brano di "Coppia aperta quasi spalancata", una delle pièce teatrali scritte dalla coppia che più ebbe successo, dichiarando: "L'autrice unica è stata Franca, ma l'ho sempre tenuto nascosto per gelosia". 

Dario Fo, in questa occasione, ammette coraggiosamente quello che molti altri artisti mai si sognerebbero di evidenziare, e cioè che il contributo delle loro compagne o dei vari collaboratori di turno va molto spesso ben oltre la marginale correzione di bozze. Vedremo come in tanti casi l'autore ufficiale arrivi letteralmente a copiare, rubare idee, manipolare opere di altri, talvolta amanti, sorelle, figlie, spacciandoli per propri, il tutto più o meno condito dalla retorica dell'amore.

La storia porta molti esempi. Uno dei più tristi è forse quello di Camille Claudel sorella maggiore del poeta e drammaturgo cattolico Paul Claudel e allieva dello scultore Auguste Rodin di cui fu amante, internata in manicomio appena esaurito il suo compito di musa ispiratrice, dove rimase a dispetto del parere dei medici che non ritenevano necessario il suo internamento. Donna geniale, scultrice di rara potenza collaborò in molte opere di Rodin che grazie al suo contributo raggiunse la gloria, lasciando lei nell’ombra e nella miseria. 

La moglie di Scott Fitzgerald scrisse vari racconti che oggi portano la firma del marito, il padre di Antonia Pozzi distrusse e rimaneggiò le poesie della figlia, i testi di Teresa d’Avila caddero nelle mani del teologo censore e ci vollero quasi quattro secoli perché si ripristinassero nella loro forma originale.

Tra gli esempi meno conosciuti c’è anche quello di Bertolt Brecht. Che le opere di Brecht siano da considerarsi frutto del cosiddetto circolo Brecht, e comunque non esclusivo patrimonio del drammaturgo, è un dato storico piuttosto comune nella letteratura di lingua tedesca, ma non da noi, dove i miti maschili letterari, e non solo quelli, stentano a morire. Il collettivo Brecht era frequentato da numerose donne, molte delle quali amanti dell’artista, come la scrittrice Hauptmann, l’attrice Steffin e la giornalista Berlau, le quali condivisero la creazione delle opere più famose come l’Opera da Tre soldi o Il cerchio di gesso del Caucaso. Nessuna di loro è oggi ricordata. 

La pratica di copiare e manipolare sembra però travalicare i confini della questione di genere. Coleridge copiò dai filosofi tedeschi, Keats collaborò con i suoi amici, altri si limitarono a trascrivere quello che avevano sentito dire o pubblicarono testi che altri gli avevano dettato. L’autorialità sembra così allargare i suoi confini, mai definita o definibile, al punto da rendere più legittimo l’uso del termine “coautorialità”, quando non autorizzi in taluni casi a parlare di vero e proprio plagio.

La tesi della critica Monika Krause è che l’autore come tale sia spesso un invenzione degli studi letterari, dell’editoria e negli ultimi anni anche della stampa. Nell’ambito della critica, per esempio, afferma: “Gli studiosi di letteratura costruiscono le loro carriere diventando delle autorità negli studi di autori canonici. Evocare un grande nome conferisce status” . La tesi della studiosa è che dietro il termine “ autore” si nasconde spesso una pratica collettiva che è stata occultata dall’individualismo della cultura occidentale. L’autore, come tanti altri prodotti, ha finito con il diventare un “ marchio” in grado di evocare immediatamente un certo tipo di scrittura, di idee, di storie. 

Monika Krause è l’autrice del breve saggio La pratica dell’attribuzione letteraria: il caso delle opere teatrali di Brecht, che abbiamo deciso di tradurre per colmare un’assenza che nessun mare internauta sembra in grado di soddisfare. Affidiamo a internet, la dimensione che rappresenta la coautorialità per eccellenza, un testo che ci è sembrato degno di tradurre perché altri sapessero, si interrogassero, iniziassero a chiedere notizie di artiste scomparse sotto il nome di Brecht. Non ci è stato dato trovare notizie simili sul tema, almeno in lingua italiana, pur avendo scandagliato i fondali della rete. E in questo sentiamo l’ebbrezza di essere delle pioniere.

Un grazie a Stefanie Golisch e a Gabriella Zanotto.