domenica 30 giugno 2013

Il berlusconismo come pornografia





Borges, lo scrittore argentino, argomentava una sua idea sull’infinito e lo zero che si annullano a vicenda, esemplificando il concetto con una simpatica metafora. Un tale si reca a Buenos Aires dove cerca di rintracciare un vecchio amico che non vede da parecchi anni, il cui nome è Jorge Luis Borges. Che accadrà se aprendo la guida telefonica troverà una città fantasmagorica e surreale dove tutti, milioni di cittadini, portano lo stesso nome di Jorge Luis Borges? Il nostro protagonista si affannerà inutilmente nella sua ricerca, concludendo che l’incontro gli è precluso. Infinito uguale zero. 

E’ davvero una situazione irreale quella prospettata da Borges? 

Non penso si tratti di un’ipotesi del tutto azzardata e lontana dai nostri tempi. Se consideriamo il berlusconismo come un sistema di potere fondato sull’immagine e sul sesso che ha finito nella sua ultima evoluzione con il produrre un continuum pornografico dentro il quale ci moviamo, la metafora non sembrerà così assurda. 

L’estrema degenerazione del berlusconismo era possibile da prevedere, poiché se la televisione è all’origine di questo sistema, la parola televisiva ne è la sua immediata derivazione. Parola intrinsecamente pornografica, cioè atto linguistico il cui scopo è creare eccitazione, stimolo e piacere con allusioni più o meno esplicite alla sfera sessuale, la quale ha finito con l’invadere ogni campo. 

Se nella prima fase il berlusconismo faceva riferimento al mondo calcistico, alla simbologia sacra e religiosa, all’alterazione della storia attraverso la banalizzazione della biografia familiare e personale, ora attinge a piene mani da una pornografia maschile ed eterosessuale, in cui il punto di vista femminile non esiste, dove predomina un immaginario fondato sulla coppia dominato e dominante ripetitivo come ogni scena pornografica. Che si parli di immigrazione, di magistratura, di economia, di affari esteri non cambia. 

Lo possiamo definire un sistema nazionale e pop porno, dove il politico pornografo esercita una pratica culturale tesa a ridisegnare il potere e a modellare le identità, utilizzando una lingua costruita su figure retoriche ben precise. L’enumerazione (gli infiniti processi di Berlusconi/il numero infinito di olgettine e deputate). La sua parente più stretta, l’accumulazione, che è la figura retorica di ogni orgia che si rispetti. La catalogazione degli spazi e dei corpi che esistono solo per essere riempiti e gestiti dagli uomini.

I nemici risultano osceni in questo tipo di immaginario nel senso più etimologico del termine, perché osano rappresentare in scena ciò che non è ammesso. Un Berlusconi condannato da tre donne giudici a sette anni di carcere e relativa interdizione dai pubblici uffici ribalta il ruolo delle donne, sempre subordinate, stupide e felici nel contesto porno maschilista, oggetti linguistici prima che figure gregarie da buttare, dare, avere, far vedere, utilizzare e girare. 

Se lo scopo del primo berlusconismo era infantilizzare il pubblico degli elettori, con frasi semplici, non problematiche, contro cui risultava inutile l’argomentare degli avversari politici, negli ultimi avamposti di questo linguaggio l’iperbole (il grande amatore delle donne che ha finito con l’occultare parzialmente il più grande statista di tutti i tempi) tende ad abbrutirlo al livello delle pulsioni sessuali. 

In questo stato pornografico difficile non è argomentare, ma distinguere, se persino i più accorti tra i giornalisti sostengono che in questione non è la vita personale di Berlusconi, ma l’avere superato un limite posto dalla legge tra la sua età e quella di una minorenne. 

Nell’illusione che pubblico e privato abbiano ancora un senso in questo ininterrotto spettacolo di prostituzione. Dove il nulla e l’infinito coincidono, il corrotto non si distingue più dal corruttore, la violenza istituzionalizzata contro le donne si colloca in un sistema continuo con la violenza privata del singolo cittadino. 

Il cui scopo può avere cambiato forme, ma rimanendo sempre quello: niente è modificabile se tutto è uguale.


sabato 29 giugno 2013

La bramosia delle arance




Le parole nella nostra lingua sono divise in genere maschile e femminile, ma la divisione non è patrimonio dell’intera umanità. Le lingue possiedono classi grammaticali di grande varietà per illustrare il mondo. La lingua dyirbal degli aborigeni australiani possiede quattro classi nominali: a. oggetti animati e uomini b. donne, acqua, fuoco e violenza ( cosa non penseranno delle donne…) c. frutta e verdura d. tutto il resto. 

La nostra cultura cambierebbe prospettiva se come la lingua anindilyakwa possedesse una classe nominale per le cose che riflettono la luce? 

Avremmo altri modi di vedere la realtà se nella grammatica italiana esistesse un genere nominale che includa tutte le cose che può cullare il vento? 

Le categorie funzionano come le giare, le ceste, le enciclopedie. Borges ne era una grande cultore. Scrisse come dal crepuscolo: 

Codeste ambiguità, ridondanze e deficienze ricordano quelle che il dottor Franz Kuhn attribuisce a un'enciclopedia cinese che s'intitola Emporio celeste di conoscimenti benevoli. Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all'Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s'agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche. 

Le ceste, appunto, delimitano un vuoto più che un pieno. Una deficienza, in quanto dormono e vegliano nello stesso istante. In una madia non si sa bene se l’arancia è concava o convessa. O una ridondanza di entrambe le dimensioni. 

Come Borges anche la Alice di Lewis Carroll si appassiona con devozione alle vicissitudini delle categorie. La sua curiosità si risveglia davanti la storia delle tre bambine, narrata dal Ghiro, prigioniere dentro un pozzo di melassa, le quali dipingevano solo cose inizianti con la “m”. Mosche, memoria, malumore. O nella conversazione con Coccobello, quando l’uovo sostiene che il nome “Alice” non ha alcuna forma a differenza del suo (Alice è una bambina che perde e ritrova continuamente il suo nome, cerchio di tutti i cerchi). Impossibilità di ogni categoria a rinchiudere per intero il reale, certamente. 

Tuttavia resta da definire questo trasporto di chi raccoglie forme destinate a raccogliere altre forme che in Foucault divennero ragione filosofica. L’inclinazione che ci appassiona ai forzieri e alle grandi arche. 

Bruce Chatwin, in un libro scritto un anno prima della sua morte, dal titolo Utz, narra della passione per il collezionismo del barone Utz per le statuette di porcellana Meissen, passione che lo salva dagli orrori del regime nazista, prima, e da quello comunista, dopo, in una Praga terra di confine e di barbarie. La collezione diventa la cifra privata e personale del barone di organizzare il mondo tra ordine e caos. 

Gli offre criteri di valutazione per soppesare i fatti e per orientarsi tra gli esseri umani al punto di sacrificarsi per le sue statuette. Chatwin non trova di meglio per definire la passione celeste dei cataloghi con queste parole: 

Utz appoggiò il capo allo schienale e, chiudendo gli occhi, ricordò l’aforisma di Augusto: “ La bramosia per la porcellana è come la bramosia per le arance”.


domenica 23 giugno 2013

La televisione come auto da fé




Dice Roland Barthes: il fascismo non è impedire di dire, ma obbligare a dire, per questo ci sono poche cose in Italia che io trovo violente come la televisione o certi giornali.

In Italia il termine “ televisione” viene usato spesso come sinonimo di democrazia e informazione. Chi rifiuta, dunque, di andare in televisione rifiuta il confronto plurale e democratico, chi al contrario accetta si sottopone al fuoco purificatore del libero giornalismo. Qui si condanna e qui si assolve. 

Si dice anche che Berlusconi abbia una parte preponderante in questa teologia televisiva dove piccoli scenari sacerdotali celebrano la ricerca del vero, investendo di sacralità certe figure e distruggendone altre. In qualche modo la tecnologia sostituisce prassi già esistenti in altre epoche, chiamate auto da fé, il cui scopo era ed è ribadire il potere della mistica, la contemplazione del sacro. Da una parte i giudici, dall’altra i condannati con il capo rasato, vestiti con i sacchi e trascinati al rogo. 

La base di questa costruzione teologica sta nell’idea che il pubblico ha diritto all’immagine, un diritto che si è lentamente trasformato, con l’arroganza propria di ogni linguaggio autoritario, nel dovere dell’immagine e nel suo assoluto monopolio. Come se non esistessero altre forme di conoscenza. E’ interesse di ogni teologia affermare infatti l’idea di essere l’unica in grado di gestire l’ignoto, nel senso di ignorare una vita comunicata attraverso altri canali: osservazione diretta della realtà, esperienza personale, lettere, archivi, libri, indagini, atti giudiziari, fatti processuali, viaggi, rete, biblioteche. 

I telespettatori, come tutti i fedeli, vengono definiti dalle domande e dagli argomenti imposti. E coloro che credono di essere informati, perché guardano la televisione e leggono i giornali, in realtà sono solo collocati all’interno di una banda di silenzio. Non si discute di ciò che non viene visto.

Per anni abbiamo assistito ad un Berlusconi, corpo sacrificabile e sacrificato, offerto religiosamente al pubblico da televisione e giornali per auto assolversi in scene rituali dove le domande erano non domande. Da questa stessa informazione ora pretenderemmo altre verità rivelate. 

Quanto è stato necessario il corpo mistico di Berlusconi ad una sinistra per la quale c’è del marcio, ma lontano sempre, in Danimarca. Quanto comoda l’immagine capestro che ha trasformato in grulli, stupidi, imbranati e succubi tutti i grillini ad una destra e sinistra senza ormai differenza, ridotte a due fenomeni psicologici traumatici nella coscienza degli italiani. 

All’altrove televisivo, ai non luoghi mediatici dove vivono giudici eretici, giornalisti sotto scorta, politici ragazzini quasi mai vengono rivolte domande ma interrogatori, non critiche ma schedature, più che indagini richieste di identificazione e capi d’imputazione. 

In uno stato di polizia chiamato libera informazione, che tanto presta il telespettatore di regime al ruolo di manganellatore pubblico e solidale.

giovedì 20 giugno 2013

Elogio della virgola




In generale non riusciamo ad immaginare un mondo dove si possa non avere torto e non avere ragione, contemporaneamente, in una sorta di simultaneità logica. 

In Pragmatica della Comunicazione, titolo apparentemente difficile per un libro al contrario godibilissimo, lo psicologo Paul Watzlawick dimostra come il linguaggio non sia un atto "neutro" ma un'azione umana come tante altre che ha precise responsabilità sulla diffusione delle malattie mentali e di altre forme di nevrosi. 

Il libro diventa particolarmente interessante quando lo studioso afferma che in ogni forma di conversazione ciò che contrattiamo difficilmente sono gli argomenti, ma i ruoli. Chi comanda in casa, chi mantiene la famiglia, chi soffre, chi ama. 

A questi ruoli noi attribuiamo l’idea del falso e del vero, del torto e della ragione. Poiché i ruoli sono interscambiabili e non sempre vengono concordemente accettati, ne deriva che tanti dei nostri litigi quando parliamo non attengono più il contenuto della conversazione che finiamo con il perdere di vista, fino ad annullarlo, ma la forma, cioè il diritto di  pronunciare l’ultima parola, l’onere di definire il punto. Punto e basta, non a capo. 

Sul punto si potrebbero scrivere innumerevoli trattati che argomentano della sua natura, non ultima la sua inconoscibilità e tendenza a sfuggire in geometria, dove viene considerato, almeno nel mondo euclideo, un concetto primitivo, cioè non definibile. Ha una posizione, ma potrebbe non avere una dimensione, non ha grandezze, ma possiede linee. 

E’ la sua assenza di volume e di parti che mettiamo determina l’infinita lotta tra Montecchi e Capuleti, di solito risolta con l’adimensionalità di quel punto che è la morte. 

Devo ammetterlo, mi è capitato difficilmente in questi ultimi mesi di parlare in maniera scevra di politica con molti amici ed amiche davvero interessati a conoscere le mie idee, piuttosto che dedicarmi alla contrattazione dei ruoli, che in questo caso erano: chi capisce di politica, chi è fascista, chi vuole cambiare le cose, chi le vuole distruggere. Di scambio di argomenti, realmente pochi. Pur non volendo, alla fine anche io mi sono trovata a decidere tra Antonio e Bruto. Altra storia quella di Cesare 

Quanto a Watzlawick, egli porta all’estremo il suo assioma affermando che non esistono conversazioni in cui si esca dai ruoli, ruoli che esisteranno sempre e che ridotti all’essenza sono quelli dell’up, chi è superiore, e del down, chi è inferiore. 

Dunque, non esiste il vero dialogo? Nelle sue ricerche da terapeuta, egli conclude che il dialogo, l’unico possibile, si realizza solo quando ci si scambia in un tempo breve, quello di una conversazione, di continuo le posizioni di “ up” e “ down”, scambio che rende le relazioni sane e feconde. 

Se Watzlawick però conclude che il dialogo è l’interscambio continuo dei ruoli, se ne può dedurre che il fine di una conversazione non è avere ragione o avere torto, perché il torto e la ragione, semplicemente, non esistono. Esistono il caldo, il freddo, la fame e la sete. In ultima analisi, ciò che mi fa star bene e ciò che mi fa star male. 

Lo scopo di un vero dialogo è costruire una relazione, una democrazia, una forma di convivere civile. Insomma, una virgola. O degli esclamativi, delle parentesi se volete, la variante della punteggiatura non solo è infinita, ma si sposta continuamente. 

Saramago, che ha compreso questa dinamica, costruisce narrazioni senza punteggiatura dove il lettore è chiamato a costruire direttamente un testo in collaborazione con l’autore, portando all’estrema sintesi ciò che accade in ogni opera. Un sistema che permette a tutti gli interlocutori l’avere non torto e non ragione contemporaneamente, nel regno della bellezza e della simultaneità.

martedì 18 giugno 2013

Una stanza tutta per Emily






Si dice che, nei suoi ultimi giorni, la poetessa Emily Dickinson vivesse rinchiusa in una stanza da cui testardamente rifiutava di uscire per incontrare persino i familiari. 

I biografi hanno abitualmente archiviato l’atteggiamento come una delle solite manifestazioni della categoria artista “ tutto genio e sregolatezza”. Una pagina del diario della scrittrice, però, illumina il mistero. 

La Dickinson afferma che la sua sensibilità per la parola era divenuta così esasperata al punto che un sussurro produceva in lei lo stesso effetto di rimbombo di un ciottolo lanciato dentro un pozzo. Quindi viveva immersa nel silenzio che per lei, sotto ogni aspetto, era diventato una questione di sopravvivenza. 

A cosa attribuire questa particolare malattia dell’anima? Accettiamo per un momento la premessa che un poeta, o un qualunque resistente del discorso, sia un fenomeno opposto a quello dell’inflazione linguistica, cioè quel processo che comporta la diminuzione del potere di significato della parola e che conduce ad anomalie curiose come il rafforzamento “ la vera verità”, o i falsi superlativi come “ governissimo”, o i paradossi della comunicazione “ l’unico governo possibile” (poiché se si tratta dell’unico governo possibile, se ne deduce che in realtà siamo in una dittatura…). 

A questo punto resta da chiedersi cosa sia l’opposto della sclerosi linguistica, di questa morte annunciata d’ogni significante di cui stampa e televisione ci offrono quotidianamente vari esempi. E’ probabile che intere galassie si concentrino nella parola di un poeta, nubi semantiche trasportate da un fiato. Il contrario potrebbe essere una concentrazione di significato tale da aumentare il peso specifico delle parole, tanto da reificarle, in altre parole tanto da farle diventare cose. 

Chissà questo spieghi l’esasperazione di Emily Dickinson per la sventatezza con cui si trattavano le parole nella sua epoca, che non è poi molto diversa dall’incuria con cui oggi costruiamo i nostri discorsi. La differenza sta nel fatto che per i distratti, nella migliore delle ipotesi, la decostruzione del linguaggio è solo una serie di parole usate in modo poco appropriato, per un poeta si tratta di cose reali, di oggetti letteralmente perduti, come quando entrano i ladri in casa e fanno a pezzi il vostro ambiente familiare. 

Non possiamo, dunque, che opporre un silenzio civico a questo fare, che non è rassegnazione, ma illuminata resistenza. Staccare i fili della televisione, non comprare più i giornali. Lo dico perché un mese addietro, al momento del governo delle larghe intese, Travaglio dichiarava: “ prepariamoci al pensiero unico di stampa e tv, alla canzone monotona a reti ed edicole unificate”. 

Da allora una concordia imperiale si è imposta in una lingua stemperata, senza nerbo, suadente dove non ci sono opposizioni ma parole di larghe intese. Nulla è più violento di questa apparente pace, niente è più barbaro di un sistema con mafie corleonesi, bancarottieri, evasori fiscali, ladri e speculatori che usa parole corrotte. 

Comprendo così cosa deve avere provato la poetessa nei suoi ultimi giorni, la violenza del pozzo, del sasso e dei cerchi concentrici. E devo ammetterlo: mi ostino a pensare che la poesia è la resistenza delle parole, la loro persistenza acuta, la loro vocazione più dolorosa. In estremo tutto quello che abbiamo al posto delle cose, oggi.


lunedì 17 giugno 2013

domenica 16 giugno 2013

Luna storta




Uno di quei giorni

che il letto viene sghembo

e la farina non riesce,

che il demonio, pure lui,

è di queste parti.

E si sa, con quel delitto

da giardino lui non c’entra


venerdì 14 giugno 2013

Solo alcune coltellate



Il campo semantico di una parola, nelle sue lunghezze e derivazioni, rivela cose molte interessanti sui popoli. L’italiano ha una sola parola per indicare la neve, l’eschimese siberiano ne ha circa trecento, distinguendo tra la neve appoggiata sul terreno, la neve che cade, la neve soffiata dal vento, la neve portata dalla valanga e così via. Ulteriore riprova di quanto l’elemento sia importante nella loro vita. 

L’italiano sembra avere particolari propensioni, invece, per una parola che possiede 744 termini complessivi per la versione maschile e 595 per quella femminile. 

Si tratta dei termini che si riferiscono agli organi sessuali. Tra i nomi che indicano l’organo maschile prevalgono le metafore tratte dalla guerra, le immagini che ne sottolineano l’aggressività o che ne esaltano la potenza e la dimensione. I nomi riferiti alla vagina invece mettono in rilievo la recettività e passività dell’organo femminile, lo qualificano come un elemento fisso, un luogo soprattutto, per arrivare agli appellativi che manifestano il timore di malattie o di restare intrappolati in un rapporto. 

Pochissimi sono invece i termini per “ stupro”, che ultimamente si è arricchito del ritornello “ bunga bunga”, il quale altro non vuol dire che stupro anale e punitivo di gruppo. Anzi, a volte, ciò che è stupro non viene chiamato neppure tale come capita per esempio nel mondo sublime dell’arte. E in questo non ci sono solo gli italiani. In pittura, lo stupro è stato celebrato spesso nelle infinite variazioni del Ratto delle Sabine di liviana memoria, passando da Giambologna a Rubens, da David a Poussin. 

Pochi sanno che Martoglio e Pirandello realizzarono in siciliano un’opera, di cui la letteratura non ama ricordarsi perché porrebbe domande inquietanti. Il testo “ ‘A vilanza”, La bilancia, narra di Orazio che, al sapersi tradito dalla moglie con il compare Saro, si reca nella casa di lui e costringe la moglie del compare ad un rapporto sessuale, cosa che dal suo punto di vista ristabilisce la giustizia in un’ottica dell’occhio per occhio dente per dente. 

Pirandello e Martoglio sono qui impegnati a dimostrarci come la relazione con una donna dai facili costumi non possa paragonarsi al rapporto con la timorata moglie di casa. In questa tirata morale, tra i due autori non si sa chi faccia la figura più barbina. Orazio finirà ammazzato, non perché abbia violentato una donna, ma per ristabilire il senso più tradizionale dell’onore siciliano. 

Uno degli alibi più frequentemente utilizzati da stupratori e violenti corrisponde al meccanismo della negazione, di cui ha parlato il sociologo Stanley Cohen nel suo testo “Stati di negazione” (2002). Si tratta di un processo che spinge gli individui, o le comunità, a non vedere o a non voler vedere, le violenze, le sofferenze e le atrocità che altri si trovano a vivere. Il meccanismo viene spiegato in un testo che viaggia gratis in internet, uno di quei piccoli doni dell’oceano internautico, La negazione della violenza nella costruzione della mascolinità, della Beltramini. 

La studiosa analizza i comportamenti violenti degli uomini in istituzioni di genere come le caserme o il mondo sportivo, dimostrando quante volte atti di stupri, mobbing e persecuzione nei confronti di compagni e commilitoni vengano semplicemente classificati come “ scherzi”, magari un po’ pesanti, ma sempre scherzi. 

Se prendiamo per vero che la costruzione della mascolinità avviene anche al di fuori di questi contesti, in un sistema sociale fortemente normato che ci costringe a dimostrare all’infinito i segni identificativi del nostro genere, nulla di strano che la violenza contro le donne venga banalizzata, occultata e minimizzata continuamente. 

Proprio come accade in quel quadro di Frida Kahlo, Unos cuantos piquetitos, traducibile con “ Alcuni taglietti”, dipinto nel 1935. La scena si ispira ad un evento di cronaca, in cui un uomo dopo avere ucciso con trenta coltellate la propria compagna, si giustificò durante il processo sostenendo di averle inflitto solo qualche taglietto. 

E fu una delle prime volte che nel mondo delle arti la violenza contro una donna apparve per quello che era: prevaricazione, omicidio, crudeltà. Al punto tale che l’artista sentì il dovere di dipingere persino nella cornice alcuni schizzi in rosso del sangue che si versava.

giovedì 13 giugno 2013

L'etica della polvere




Nel suo giro per il mondo Darwin si imbarcò sulla Beagle con il capitano Fitzroy, metereologo ante litteram, adoratore di Bibbia e difensore del libro quale fonte attendibile in materia scientifica, al punto da passare parte della sua vita cercando di calcolare le dimensioni dell’arca di Noè. 

Possiamo immaginare che erudite conversazioni si siano svolte tra i due: il Leviatano verrà dall’argilla? Nel giorno in cui Dio creò gli animali, nacque prima il delfino o la trota? 

Eppure, se per Darwin non fu affare da poco sopportare il suo nocchiero, per Fitzroy fu una vera sciagura avere incrociato il proprio destino con quello dello scienziato. Invece di un’onesta e tranquilla vecchiaia visse tra i tormenti, perché non era riuscito a convincere Darwin della intrinseca stoltezza di una tesi che giudicava eretica. 

“ Al famoso convegno della British Association del 1860 ’’- dice lo scienziato Gould in “ Questa idea della vita”- “ lo squilibrato Fitzroy avanzò camminando maestosamente tenendo una bibbia sopra la testa e gridando “ Il libro ! Il libro ! ’’. Cinque anni più tardi si tagliò la gola ’’.


Esempio quanto mai calzante di come l’ossessione persecutoria del torto e della ragione non sempre abbiano conseguenze positive. 


Al contrario, secondo Gould la natura non ha problemi nell’ammettere di avere sbagliato, anche se lo fa a modo suo. Un po’ come accaduto con il Megaloceros giganteus, il cervo dalle corna giganti, vincitore nella gara della sopravvivenza sia perché preferito dal genere femminile della specie sia per la forza che gli permetteva di sconfiggere i rivali, sparito non ultimo proprio per le dimensioni delle sue estremità che finivano con intrappolarlo tra i rami degli alberi. 

La selezione poi non ha problemi nel ripensamento delle sue scelte. La sua maniera di procedere va anche per goffi tentativi, rivedendo a volte le sue soluzioni, com’è il caso del Pakiceto. 

Quest’ultimo è un fossile di mammifero, ritrovato in Pakistan, citato dai paleontologi a riprova della catena evolutiva delle balene, le quali in un primo momento abbandonarono il mare, poi sulla terra si trasformarono in mammiferi, quindi in una sorta di ripensamento generale fu loro concesso di ritornare tra le acque. Se questo è vero, la natura procede per tentativi in uno spontaneo crearsi della vita, nel suo evolversi non esistono né il torto né la ragione, categorie del tutto umane, che non sempre aiutano la nostra specie nella sopravvivenza. 

Vista in questi termini la natura sembra rivoltante e cinica ma non è poi lontana dal nostro modo di procedere dove nella maggior parte dei casi chiamiamo torto ciò che ci fa star male e ragione ciò che ci fa star bene. La sciagurata vita di Fitzroy pare infatti riprova di un uomo che pur di non ammettere di avere torto, (non moriva Dio ma una maniera di pensarlo, la sua in particolare) si tagliò la gola. 

Torto e ragione, dunque, forse sono stati concepiti dalla natura in termini di“ resilienza”, cioè quell’insieme di abilità e flessibilità necessarie per adottare nuovi comportamenti una volta dimostrato che i precedenti non funzionano a raggiungere l’equilibrio. 

Così parla J. Ruskin nel suo capolavoro “L'etica della polvere”: “ (…) potremmo andare più giù nella scala della natura mostrando il carattere e le astuzie dei cristalli, i loro contrasti, vedere come si comportano quando un corpo estraneo giunge a turbare i loro progetti, più antichi di qualunque cosa la nostra mente possa concepire. Far vedere come lasciano entrare o rigettano il nemico, e la possibilità di vittoria del più debole sul più forte come nel caso dell’onnipotente quarzo, che abbassa cortesemente la guardia di fronte all’umiltà un po’ sorniona dell’epidoto, consentendogli di sormontarlo, o del cristallo di rocca, nella sua lotta ora magnifica ora terribile con il ferro. Mostrare l’espandersi regolare ed immacolato di un blocco ialino, che respinge in anticipo ogni contaminazione, e lo sviluppo fragile, la chiara immoralità di un fratello dello stesso blocco che invece accetta le contaminazioni”.

lunedì 10 giugno 2013

Smania


Certe notti per la smania 

mi volgo e mi rivolgo in letto. 


Mi giro e mi rigiro, non trovo

pace, m’agito nel sonno che pare 


spino, strapunto di zitella, 

di trine e cardi amari. E sospiro.


Amo, non amo. Pazza sono,

non sono pazza. L’amore mi chiama


al suo mestiere, mi sveglia un ansito

d’ali, un respiro di tortora in petto


Turchia....santini

domenica 9 giugno 2013

sabato 8 giugno 2013

Il paradosso dell'imperatore



La tipologia del lettore kafkiano è un lettore in disarmo, poco lettore nostalgico (non esiste nella finzione il lettore nostalgico, che vuole tornare alla realtà, altrimenti non leggerebbe) catapultato nel mezzo di un frammento la cui caratteristica è la densità del contesto e la sua compattezza. Ogni appassionato di Kafka sa che deve mettere tra parentesi non solo la logica (gli animali parlano nelle favole, tuttavia noi decidiamo di credervi) ma anche ogni sua riduzione per assurdo (Gregor Samsa si risveglia un giorno trasformato in uno scarafaggio e l’esperienza non è affatto piacevole).

Il messaggio dell’imperatore è un piccolo racconto su di un misterioso sovrano, il quale, in punto di morte, affida ad un suddito un messaggio da consegnare al lettore. Il suddito, però, non arriverà mai a destinazione, perdendosi nel maestoso palazzo imperiale, poiché prima dovrà attraversare le stanze del palazzo più interno, poi le scale, quindi i cortili, infine un secondo palazzo e così via per millenni. 

Si tratta, a bene vedere, di una variazione del paradosso di Achille e la tartaruga formulato da Zenone, nel V secolo a.C. , in Grecia. Anche il paradosso greco ci colpisce per la compattezza del contesto che l’ascoltatore incauto non può mettere in discussione. In questo sfondo impenetrabile si afferma che Achille, conosciuto per la sua velocità, non potrà mai raggiungere una tartaruga che lo precede di qualche metro (in quale mondo Achille si trova a sfidare una tartaruga?). Quando Achille avrà percorso mezzo metro, la tartaruga si troverà più avanti di Achille di un quarto di metro; quando avrà attraversato quel quarto, la tartaruga si porterà avanti di un ottavo di metro e così via all'infinito, la distanza tra Achille e la lenta tartaruga pur riducendosi verso l'infinitamente piccolo non arriverà mai ad essere pari a zero. 

Il paradosso, lo sappiamo, venne superato con il concetto di limite e di calcolo infinitesimale secoli più tardi, quando si svilupperà l’idea che una somma di infiniti elementi può avere come suo risultato una serie finita. Ciò che sembrava interessare a Kafka e Zenone era questo concetto dell’infinito che entrambi fanno a pezzi, per cui l’infinito ad un certo punto può finitesimarsi, entrare nel nostro mondo di numeri interi e razionali. 

Più in là, nel mondo spirituale, quando questa idea viene concepita come l’irruzione del divino nell’umano si parla di speranza, quando è interpretata come il momento in cui l’irrazionale entra nel razionale la si definisce follia. 

Ad ogni buon conto, il potere teme sia la follia che la speranza, soprattutto quest’ultima, al punto da far affermare a Chomsky che ogni regime è interessato alla sua distruzione tanto quanto la libertà. Distruggere nell’individuo la speranza che le cose possano cambiare è la vittoria ultima di ogni dittatura. 

Senza la speranza, Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga né il messaggero dell’imperatore consegnarci le sue ultime parole. 

Resteremo convinti che l’infinitamente piccolo delle nostre azioni positive non potrà mai tradursi nella somma finita di una grande rivoluzione.

venerdì 7 giugno 2013



Gli archivi infami



mercoledì 5 giugno 2013

Il teorema della rosa





Dice la Szymborska, in un piccola teorema sulla legge dell’identità che potremmo chiamare “ il teorema della rosa”: 

Se anche prendessi il monte, non fiorirei di una rosa. 
D'una rosa fiorisce solo la rosa. Lo sai. 

Insomma, A uguale ad A. La questione fu a sua volta formulata da Gertrude Stein (una rosa è una rosa è una rosa). Per la Stein quando un poeta pronuncia la parola “ rosa” non evoca solo l’oggetto in se stesso, ma l’immaginario che si è accumulato sull’oggetto in secoli di letteratura, di miti e di linguaggio. All’inizio la rosa era rossa e aveva le spine, oggi ha varie caratteristiche: è diventato un fiore geneticamente modificato. 

In questa diatriba filosofica tra poeti, che si rispondono da un secolo all’altro lo sappiamo, interviene anche il verso di Bernardo Cluniacense, stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus, (dove la parola Roma fu poi trasformata in Rosa da Umberto Eco) la cui traduzione pressappoco è: "Roma antica esiste solo nel nome..." 
E ne potremmo fare una questione oziosa, da critica botanica e pura. 

Nella critica impura, invece, la quale non prescinde mai dall’idea che noi siamo le cose ma anche il modo come diciamo le cose, ci sono varianti in questa scuola di pensiero, non ultima la canzone di Horacio Guarany, dal titolo “Se tace il cantore”, (Si se calla el cantor). 


Se tace il cantore muore la rosa 
a che serve la rosa senza il canto? 
Deve essere il canto una luce sopra i campi 
che illumini sempre gli umili. 
Non taccia il cantore, perché il silenzio 
Vile nasconde la malvagità che opprime 


La canzone fu scritta durante la dittatura argentina di Videla e fu anche per questi versi che il poeta si meritò un paio di bombe sotto casa. Nominare la rosa qui vale denunciare, non occultare le torture. In questo senso tutti possiamo essere poeti. 

Il teorema della rosa si illumina di un altro corollario: non viviamo in un mondo astratto dove esiste la rosa e chi nomina la rosa. Esistiamo in un mondo profondamente condizionato dai linguaggi e dal silenzio che insegnano le dittature. 

Se A è uguale ad A (Szymborska), se A è uguale a tutto ciò che è stato detto su A (Stein), A continua ad essere A solo se può essere nominato come A sotto qualunque regime (Guarany). L’identità della rosa non può prescindere dalla libertà della rosa. 

In memoria dei giornali liberi

martedì 4 giugno 2013

Il fascismo è un'allucinazione


In quella zona mitica in cui la letteratura incontra se stessa, ragiona di sé e crea un simbolo del simbolo in un viaggio infinito, si narra di Don Miguel de Cervantes e di un suo incontro, nell’anticamera di un ufficio impiegatizio della Corona di Spagna, con i discendenti del nobile Quesada, decisi a rivendicare un titolo onorifico che gli sbigottiti funzionari spagnoli continuavano testardamente a negare.

Gonzalo Jiménez de Quesada era stato uno dei primi conquistatori alla ricerca dell’Eldorado, leggendaria terra di ricchezze, che continuò a cercare per tutta la vita in modo entusiastico, percorrendo gran parte dell’America conosciuta, finché ottantenne, incapace di ammettere il fallimento della sua avventura, pretese di lasciare agli eredi il risibile titolo di “ governatore del Dorado ’’. 

La storia narra che fu proprio Quesada ad avere ispirato a Don Miguel la figura del Don Quijote e chissà soprattutto quella scena del libro, quando l’hidalgo, incontrando la vera Dulcinea, una pelosa e sgraziata contadina, scopre che la sua amata puzza di cipolla. Cosa fa allora Don Quijote pur di non ammettere la realtà? Dichiara che una strega ha fatto un incantesimo alla sua bella trasformandola in una orchessa.

La ragione è chiara. Don Quijote non può ammettere che Dulcinea è una banale, persino brutta, rivoltante popolana, perché ne andrebbe della sua identità. Sarebbe come ammettere che Don Quijote non esiste, perché ciò che crediamo ci definisce.

Chissà Don Cervantes, in quell’anticamera reale, sia rimasto sbigottito non tanto dalla riluttanza di Quesada ad ammettere la propria follia quanto dall’incapacità di arrendersi al reale che il conquistatore folle era riuscito a trasmettere ai suoi discendenti. 

La risata di Cervantes, così ampia e spassionata tra le pagine del libro, è stata per lo più interpretata come una sorta di sodalizio nei confronti di un sognatore senza tregua, Don Chisciotte, a cui vanno le sue simpatie. Tuttavia nel Quijote appare qua e là un’idea inquietante che fa capolino tra le avventure rocambolesche dell’hidalgo, che cioè un sognatore, nella misura in cui nega un mondo per affermare se stesso, non sia tanto un’idealista, bensì un egoista della razza peggiore, uno che obbliga la realtà a piegarsi alle proprie follie come se tra sogno e sognatore non ci fosse nulla, neanche quell’umanità di miserie e cinismo contro cui puntualmente si infrange la sua immaginazione. 

Don Chisciotte è una ridondanza di se stesso che è la qualità peggiore del sognatore. I libri lo hanno trasformato in una tautologia, destinato sempre e soltanto a confermare se stesso, proprio come certi regimi che impongono l’assolutismo dei loro miti e dei loro eroi. Al fascismo, infatti,non importa l’equilibrio tra la realtà e la sua interpretazione, un equilibrio che si modifica e si rinnova nel dominio della democrazia che è una scienza. 

La dittatura, prima ancora che un regime, è un comune delirio, nella sua forma più sociale un’allucinazione perversa