lunedì 25 novembre 2013

Italia dei sepolcri




Quando gli austriaci arrivarono in Italia nel 1815, tentarono di ingraziarsi immediatamente le figure più importanti della cultura italiana, tra queste Foscolo, a cui venne offerto la direzione del prestigioso giornale La Biblioteca italiana. 

Gli austriaci si erano convinti che gli intellettuali in casa nostra si vendessero e comprassero al mercato come le castagne, chissà per quale ragione. Quella volta, però, si sbagliarono. In un primo momento infatti lo scrittore parve accettare la proposta, ma il giorno dopo scappò dall’Italia e non vi rimise più piede. 

Si tratta di un momento della vita del Foscolo che è divenuto oggetto di ampia discussione tra i critici, personaggi con cui lo scrittore non intrattenne mai appassionanti relazioni. Ricambiato in questo da un odio equivalente. L’idea di molti è che si trattò di orgoglio ferito. Foscolo deluso dalla pochezza dei propri compatrioti decise di non averci più nulla a che fare. 

Altri studiosi sono invece del parere che lo scrittore si sia reso conto di un’epoca che spariva e di cui egli era il sopravvissuto eroe. Insomma Foscolo, prima donna, star assoluta del panorama italiano delle lettere, mai si sarebbe adattato ad un ruolo di comprimario in un’epoca già vittoriosamente segnata da altre forme di lotta per l’indipendenza italiana come la Giovine Italia di Mazzini. 

Se si ha però la fortuna di leggere il suo epistolario, uno dei più grandi capolavori della letteratura romantica, opera sconosciuta e mai apprezzata nell’intensità del suo valore, basterà vedere ciò che scriveva dall’Inghilterra, dove scontò il suo esilio volontario, per restare impressionati dalla preveggenza con cui seppe intuire che l’Italia si sarebbe fatta, certo, ma quanto agli italiani c’era proprio poca speranza. 

Le lettere parlano anche della miseria dell’esilio, dello squallore di un uomo costretto a vivere mendicando prestiti, dando lezioni private. I soldi non bastavano mai, neppure per comprare un paio di guanti in modo da ripararsi dal freddo. A Catherine Russel, nobildonna inglese che in quegli anni di esilio sdegnosamente lo rifiutò, egli scrisse: “ Non ho più alcuna speranza da accarezzare, non ho più avvenire in questo mondo; largo com’è, non potrebbe offrirmi un soggiorno stabile e non l’accetterei, mi basta attraversarlo per riposarmi altrove ’’ .

Era il mondo ormai che gli stava stretto, non solo l’Italia. 

Sono queste le ultime parole e il testamento spirituale di uno dei più grandi scrittori della storia italiana, che non risparmiò proprio nulla ai suoi compatrioti accusandoli continuamente di codardia e di pochezza spirituale. Cose che non si perdonano a chiunque. E che poco si intuiscono dietro le noiosissime letture a scuola dei Sepolcri, con cui qualche cadavere di studente prende a galleggiare nelle ore mattiniere. 

Foscolo si era convinto che gli italiani non fossero capaci di storia. E che i cadaveri più autentici non si trovassero esattamente nei cimiteri. Dopo la qual cosa si prefisse l’esilio come un destino, lo visse come tale senza rimpianti. Sembra di intuire dalle sue ultime lettere che pur volendo, pur desiderandolo immensamente, non avrebbe potuto mettere a tacere in alcun modo la sua coscienza. Morì in Inghilterra, povero ormai e abbandonato da tanti, pochissime persone trovarono infatti l’orgoglio di accompagnarlo al suo funerale.

domenica 17 novembre 2013

Casa di signorine



Capirlo, signore,
chi vi parlò
della mia casa.

In realtà si sente
in ogni trave
come una goccia
che impazzì le mura.

La soglia e il nespolo
spezzò la porta.

Quanto all’estate
pare svenire
sotto la fatica
di cupe raffiche.

Un manovale
- assai spratico -
con edifici
d’ampia metratura

la volle che pericola
tra due versanti,
come chi voglia
sfidare un danno.

Sghemba, m’intende,
senza misura.

Le zie signorine
lo sapevano
che il demonio ride
tra gli invitati.

Certe che il vento
nessuno lo vede
a furia di dire
le nostre stanze  

domenica 10 novembre 2013

I mangiatori d'oppio




Si narra che Annibale, ad un passo dal distruggere Roma, fece riposare le sue truppe presso Capua, in attesa di rinforzi dalla madre patria, matrigna assai nel suo caso, che mai giunsero. Il senato cartaginese, geloso del suo genio e delle sue vittorie, lo lasciò nel sud Italia per dodici anni, senza alcun aiuto. Iniziò così la vera o leggendaria epoca degli ozi di Annibale, delle sue mollezze, in una Capua dipinta, da chi vinse romanamente, come una sorta di città tenutaria di bordelli e di innominabili piaceri. La storia, comunque, ha di queste improvvise attese, che si prolungano, non si sa bene in che termini. 

La letteratura, per risonanza, non poteva lasciarsi scappare il tema della smemoratezza generale, dell’oblio in cui certe volte sembrano cadere gli eventi o la loro parvenza. Il poeta inglese Tennyson nel poema “ The lotos eaters” narra dell’arrivo di Odisseo e dei suoi compagni di ventura in una terra dove un eterno crepuscolo sembra regnare, come una meridiana ferma e fissa. L’isola è popolata dai mangiatori d’oppio, creature dagli occhi miti e colmi di malinconia, dal colorito pallido ed esangue che offrono i fiori del loto ai marinai. Una volta assaggiato il fiore, i compagni di Odisseo si rifiutano di seguirlo verso Itaca, dichiarando la loro volontà di restare nelle terra delle penombre, lungo la spiaggia a sognare, ascoltando il battito del loro cuore. Nell’inerzia assoluta.

La stessa sensazione di aria viziata, di intenti abbattuti da volontà che si scorda, l’ho avuta leggendo, in mancanza di altra autentica letteratura, i verbali degli interrogatori di Carmine Schiavone, reperibili su internet, nel sito di Repubblica. Vi si narra di come la camorra, con il consenso di uno stato per lo più colluso e assente, abbia avvelenato in trent’anni una delle zone più belle dell’Italia, la Campania, sotterrando tra campi e autostrade tonnellate di rifiuti tossici e velenosi. 

Non che non si abbiano sussulti durante la lettura della testimonianza. Un soprassalto, al limite della comicità, lo si prova quando il pentito a pagina 10 della sua deposizione dichiara di avere versato gli introiti del traffico illecito nella casse dello Stato. A quel punto, il presidente della commissione d’inchiesta fa un salto sulla sedia. Dico “fa un salto sulla sedia” nel senso che me lo immagino, in quanto nel verbale non c’è ovviamente nulla che si riferisca ai fuori scena. 

“ Vuol dire nelle casse del clan?” --- lo corregge il presidente (poiché l’autentica letteratura lascia sempre uno spazio all’immagine del lettore potremmo pure immaginare dei puntini di sospensione a questo punto…). 

“ E’ lo stesso, più o meno” --- ribadisce Schiavone (senza scomporsi, verrebbe proprio da pensare).

Presidente, incalzando: “Perché dice che è lo stesso?”.

Schiavone, con tono sicuro: “ La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato…Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan quanto avrebbe forse potuto esistere?”. 

Dunque, non mi riferisco a questi e tal altri spunti di tragica comicità che si leggono tra le righe del verbale, quanto ai mangiatori d’oppio di uno stato, che a venti e passa anni da queste dichiarazioni non hanno mai avviato un piano di bonifica e recupero per una tragedia che è una vera e propria emergenza nazionale che nulla ha da invidiare alle varie Chernobyl o Fukushima. 

E se la letteratura altro non è che realtà meditata, in un mondo che ben volentieri riposerebbe dai nostri nomi, non si può non pensare ai politici che hanno allegramente contribuito alla morte della Campania. Proprio lì, nel momento in cui Schiavone in modo memorabile solleva le mani per mostrarle. Qui non è molto difficile immaginare il gesto, leggero, davanti il viso del presidente, probabilmente inebetito mentre gli dichiara:

“ Ora conduco una vita diversa… Vede che belle mani? Sono tornato alle origini”.