venerdì 31 maggio 2013

Il sarchiapone scomparso






L’Apocalisse di Jean d’Anger è un ciclo di arazzi, un’opera i cui esemplari gareggiano con i più splendidi d’Europa. In uno di essi, una mano goliardica ha disegnato la figura di una lepre, sulla cornice di un arazzo, mentre scompare correndo verso l’imboccatura di una tana. La lepre riappare qualche metro più in là su un altro arazzo, questa volta venendo fuori dalla tana in cui l’avevamo vista precedentemente entrare. 

La bizzarria ha il potere di irrompere nella realtà, svelandone per un attimo i suoi giochi, ha lo scopo di ricondurre l’Apocalisse a ciò che è, una finzione, una teoria letteraria. 

La letteratura è una fauna di bestiari, dalle chimere ai centauri, la cui silenziosa scomparsa non è certo cruenta come le stragi di foche e balene, sebbene altrettanto significativa. Una delle ultime volte in cui si è avuta notizia della presenza di uno di questi fantastici animali nel nostro mondo è stato nel 1973, nella scena del sarchiapone di Walter Chiari. 

In uno scompartimento ferroviario, affollato da passeggeri, uno di questi viaggia con una gabbietta coperta da un telo. Ad un certo punto, il passeggero, dice di essere stato morso da un sarchiapone americano che confida di portare con sé. Un altro passeggero, interpretato da Walter Chiari, fingendo di conoscere perfettamente l’animale, s’invischia in una bizzarra conversazione, ma ad ogni suo intervento in cui cerca di indovinare le caratteristiche dell’animale, il proprietario smentisce in tono autoritario, finché il sarchiapone viene descritto come una bestia feroce, cosa che induce tutti gli altri passeggeri ad abbandonare lo scompartimento. Alla fine, rimasti soli, il passeggero rivela a Chiari che il sarchiapone è un animale inventato, usato per spaventare i passeggeri e poter viaggiare da solo nello scompartimento.

La lepre d’Anger e il sarchiapone appartengono in realtà alla stessa razza. Sono evocati come una leggera interruzione che ci consente di capire dove ci troviamo: non nella realtà, ma nel cerchio dell’immaginario. 

Si sterminano gli animali, sia quelli veri sia quelli fantastici. Disturbano, occupano spazio, in generale puzzano. Interrompono la nostra linea, creduta perfettibile, ma umana.

Quanto a quelli fantastici, dovessero irrompere per un istante nello scherma della televisione, ci rivelerebbero come gli spettatori del moto perpetuo, della quadratura del cerchio. Incapaci di distinguere tra realtà e finzione, una realtà piatta dove tutto ha lo stesso peso morale, le salsicce e la vergogna di una legge elettorale non affossata, la Lottomatica al governo e le parrucche, i pizzini, gli scontrini, i necrologi spietati.

giovedì 30 maggio 2013

Elogio del lottatore non violento



Bisogna avere pazienza. C’è una certa durezza che non viene mica dall’averle prese sempre nel momento sbagliato. Certe lentezze che non son figlie della paura. Crudeltà e pietà si alternano in un vero lottatore. Nel fondo della loro spietatezza c’è un cumulo di dolcezza. 

E’ difficile da dire. Li vedete in piedi per diversi motivi, per fede, diresti, per ostinazione. Spesso hanno matrimoni sbagliati, figli sbagliati, vite sbagliate alle loro spalle. E qualcuno sempre pronto a ricordarglielo. Ma averli come avversari ha un senso preciso. Il senso più definitivo, se posso dire, di rivale. 

E’ una fortuna che qualcuno non vi tolga mai la dignità, che non prolunghi mai le vostre agonie, che non volga verso di voi il lato più debole se mai vi venisse voglia di esercitare la vostra crudeltà. 

E’ un segno di amore per loro stessi e per la vostra anima. 

Il mondo, questo mondo, sarebbe un vero macello senza di loro. Una triste questione di prenderle e ridarle. Solo pecore e lupi. Solo serpi e colombe. Tutti muti, tutti sordi, tutti ciechi. Nessuna grazia e neppure nessun candore. Solo una banale e prolungata volgarità. 

Certo li vedete cadere, non dico questo. Di solito, finiscono in sconfitte memorabili, in sfide banalissime che neppure un bambino o chiunque sia più cauto di loro avrebbe mai perduto. Ma in questo caso chi saprebbe cos’è la sciagura e quanto bisogna essere forti per disprezzarla? 

Stare in piedi, questo lo hanno capito. Dovrete scrutare bene nei loro occhi per capire che non è al lottatore ma alla lotta che si concedono, guardare nel centro della vostra oscurità per capire chi sono.

martedì 28 maggio 2013

La letteratura come luogo






La letteratura è un luogo, come tale soggetto ad abusivismo edilizio. Entrate da una porta, uscite da un’altra, non tanto perché gli orizzonti vi hanno cambiato, ma perche voi li avete modificati. Tutti, inevitabilmente, costruiamo paesaggi quando leggiamo. Letterature personali. Gerarchie urbane. 

La personalità dell’abusivo, però, è quella di imporre la sua vista per lo più fatta da periferie senza anima che hanno alterato le linee originali del paesaggio, procedendo sempre nello stesso modo: baracchette, capannoni, sopraelevate, incendi. L’abusivo procede da sé, dal suo centro, lo espande nel dappertutto. 

Catullo è davvero Catullo, se da secoli nessuno ricorda le sue poesie erotiche sugli amanti e sui ragazzi che cantò? Esiste un romanzo più appassionato nella letteratura italiana dell’epistolario privato di Foscolo? Hanno costruito il Pirandello delle maschere, del Pirandello ultimo, innamorato della bellezza, che ne è rimasto? Turismi di massa su luoghi fragili, direbbe l’archeologo Marcello Madau. 

Attraversare questi luoghi, impone di solito il dover fingere di essere qualcosa di diverso da ciò che uno è, non un linguista, non un archeologo, uno studioso o un lettore. Altrimenti ti ritagliano addosso il paesaggio adeguato. Meglio, perché funziona, la clandestinità. Frequentare certi bassifondi letterari, quelli, per intenderci, dove vanno i peggiori. 

Eduardo Galeano, autore di Las Venas abiertas de América Latina, testo proibito e introvabile per molti anni in Sud America, racconta la sua emozione più grande, dopo avere scritto il libro. Accadde un giorno in un autobus scalcagnato, mentre viaggiava in incognito, quando una giovane donna si alzò e cominciò a leggere le pagine del suo saggio ai viaggiatori interdetti tra galline e capre. Il suo libro si impose, lettore e scrittore sfidarono le dittature.

Ecco un paesaggio che si ritaglia, inconsapevole della presenza dell’autore. Una tradizione orale che si tramanda, oltre il demanio pubblico, dove la critica è contaminata, impura, politicamente scorretta. Si fa forza di una lettura che non può prescindere da un paesaggio sociale devastato. Lontana dai giornali e dai gironi commerciali, dove il nostro inconscio è cementificato.

domenica 26 maggio 2013

La disconferma



Mi accadde, tempo fa’, di andare ad una mostra di Keith Haring alla Triennale di Milano, accompagnando una mia classe. Durante la visita, che durò due ore, la guida riuscì a non pronunciare neppure una volta la parola “ omosessualità” a proposito del pittore. Il che è come riuscire a non parlare di Rinascimento davanti a un quadro di Botticelli o di esilio nel caso di Dante. I ragazzi, naturalmente, mostrarono una certa perplessità davanti al mutismo della guida e ai quadri dai contorcimenti anatomici piuttosto spericolati, davanti ai quali, lei, implacabile, si immolava come davanti ad un quadro di puro astrattismo. Dopo cinque minuti la piantarono in asso, come fanno i ragazzi, ovvio, cioè smisero di ascoltarla. 

Si chiama “ disconferma”. Una forma di violenza verbale che l’antropologo e filosofo Bateson non esita a definire come “una delle più penose e spesso crudeli forme di comunicazione umana”. La disconferma, a differenza della negazione non dice all’altro “ hai torto”, affermazione che comunque riconosce la presenza e la dignità dell’interlocutore, comunica invece il “ tu non esisti”. Si dirà che la mia buona guida negava l’esistenza di una parte della vita di Haring, non l’intera sua esistenza. Anche io la pensavo così, finché non ho sentito dire da qualcuno che “ la mafia non esiste”. Fateci caso, se la mafia non esiste, non esiste l’antimafia, né Falcone, né Borsellino, né Provenzano, né le bombe né il carcere duro per i mafiosi. 

Dunque, mi ha colpito non poco la frase di Napolitano quando ha affermato che “bisogna fermare la violenza verbale poiché può portare all’eversione”. Si, perché ci sono tante, ma proprio tante forme di violenze verbali di cui l’insulto e l’ingiuria sono solo una specie, forse la più riconoscibile. Ve ne sono di altre ben più sottili e molto più difficili da riconoscere, come la disconferma vedi il caso, magia verbale grazie alla quale in questi giorni sparisce una parte di Italia indignata, arrabbiata, esasperata da un governo che non la riconosce né le da la possibilità di esprimersi perché si arroga il diritto di affermare “ tu non esisti”. 

L’eversione è già lì, non bisogna cercarla più di tanto in giro, è in quel negare l’esistenza di un paese devastato nei suoi valori morali e civili. Come se nulla, ma proprio nulla accadesse.  

Piccoli atti di genocidio


Di solito Polifemo, il ciclope, viene considerato come una sorta di villano davanti a cui non può che trionfare un galantuomo di statura come Ulisse. Nella versione di Euripide però è proprio il ciclope che trova la sua spelonca preda del saccheggio, nonché il suo guardiano bastonato da parte dell’eroe e la sua allegra comitiva. L’ospitalità negata dal guardiano, viene imposta a suon di bastonate civili.

Nonostante questa epica e sfortunata circostanza Polifemo, quando arriva, non divora l’incauta comitiva, perché invece desidera conoscere l’identità dei suoi ospiti. E’ a questo punto che Ulisse non può fare a meno di esibirsi peggiorando notevolmente la sua situazione.

La conquista di Troia viene presentata come una “ formidabile impresa’’, ma Polifemo gli ribatte che è stata “ una campagna militare vergognosa ’’. Ulisse parla di carneficina di stato e Polifemo gli risponde: “ Quelli che inventarono le leggi, ingarbugliando la vita degli uomini, vorrei vederli in lacrime ’’, dove per leggi Polifemo sembra proprio intendere tutto ciò che ti impedisce di vivere in pace con il tuo vicino.

Il dramma si snoda: il ciclope è un uomo che possiede un solo occhio e non ha niente della doppia vista, delle menzogne, degli imbrogli di Ulisse, è creatura che non ama bruciare intere città per ordine d’altri, che rifiuta di sgozzare famiglie con l’inganno di un cavallo di legno.

Non ha imparato a mentire, non è capace di nascondere i suoi propositi, a tal punto arriva la sua natura ingenua da comunicare senza indugio ad uno come Ulisse la decisione di mangiarselo a cena. Quello che ne segue è un manuale delle azioni più tipiche messe in atto dalla civiltà europea quando si impegna in qualche conquista. Innanzitutto l’offerta del vino. L’alcol è uno dei più potenti alleati nel processo di dominio d’altre razze, lo dimostra la sua diffusione tra gli indigeni del sud e centro America o tra le popolazioni in Asia ed Africa. Il vino serve per piegare le ginocchia dei popoli, poi, di solito, segue lo sterminio culturale. L’accecamento del ciclope rappresenta infatti metafora non solo dell’astuzia di Ulisse, ma anche del modo con cui si priva una creatura del suo sguardo e quindi della sua principale fonte di conoscenza nei confronti del mondo.

Ulisse teme chiunque osi mettere in ridicolo o dimostri l’infondatezza ultima delle sue azioni, pertanto la cecità di Polifemo nel suo momento più tragico ricorda l’urlo di un mondo, feroce e selvaggio, che scompare per sempre dalla storia. “ Nessuno “ non è più il nome di Ulisse, ma la dimensione tragica in cui entra ogni popolo dopo i nostri piccoli atti di genocidio

sabato 25 maggio 2013

Lumera





Amore mezz’arancio 

e mezza mela, 

ieri solo tu mi separasti. 

Ed oggi 

ti somiglia chi è lontano

Antigone, o del seppellire i morti




Ci troviamo in Grecia, in epoca lontana, dove una guerra ha finito col trascinare in battaglia due fratelli, uno che chiameremo il buono, Eteocle, militare al servizio di Creonte , e l’altro che definiremo il cattivo, Polinice, il cui torto essenzialmente è consistito nello schierarsi dalla parte sbagliata. Un prete rivoluzionario, un oppositore di regime, un magistrato? 

I due si danno morte l’un l’altro, ma al momento della loro sepoltura interviene Creonte , il tiranno, il quale pretende che si renda pubblico onore solo al “ buono ’’, lasciando il cadavere del “ cattivo ’’ in mezzo ai campi preda delle fiere e degli animali.La logica di Creonte è di una civile volgarità: esistono cadaveri buoni, degni di pianto da parte dei vivi, e cadaveri cattivi che non meritano alcun rispetto perché così ha stabilito il governo umano. 

Contro questa logica che vuole morti senza tombe e morti osannati, insorge Antigone, decisa a seppellire Polinice senza ricorrere a sotterfugi di alcun tipo.

Il punto è questo, la visibilità. La tragedia di Sofocle sembra infatti suggerirci che se solo lo volesse, se davvero lo desiderasse Antigone potrebbe seppellire suo fratello in gran segreto, lei invece vuole la scena: comincia a girare per la piazza principale del paese con un cartello appeso al collo, bussa ai tribunali per sapere chi ha collocato la bomba lungo l’autostrada, pretende di conoscere il nome dei mandanti. 

I cadaveri le camminano sul petto, non può farci nulla, non si possono seppellire i morti se non dal punto di vista della vita. A questo punto la protagonista, catturata mentre dà sepoltura al fratello Polinice, concluderà i suoi giorni da “ innamorata dei morti ’’ in una spelonca, dove viene rinchiusa senza luce e senza cibo.

I miti, a differenza dei libri, non nascondono gli uomini. In generale rivelano una storia dove il sogno e l’insonnia hanno effetti specifici sul funzionamento della macchina letteraria. Nella veglia, di solito forzata, ci mostrano. 

Nel caso di Antigone, suggeriscono che la politica propone sempre un legame, una malattia. Da una parte i cittadini paurosi, pieni di timore e confusi. Dall’altra il potere che li cura e gli chiarisce le idee.

Perché questo legame funzioni deve essere negata la visibilità di ogni conflitto. La pacificazione deve essere imperante. I funerali di Don Gallo creano un pericoloso immaginario, i fischi a Bagnasco, da certi giudicati irrispettosi e vili, fomentano una religione laica, innamorata della morte perché mai secondaria alla vita.

Se solo avessero potuto seppellirlo di notte. Nella spelonca, nella lingua del niente, tra i corpi timorati.

venerdì 17 maggio 2013

La mela di Alan Turing



La storia e le favole confermano che al mondo non esiste un frutto più infausto della mela per il genere femminile: a partire dalla prima, quella di Eva si intende, è infatti una sequenza infinita di disastri dove prima o poi fa capolino il nostro nobile frutto. Non c’è dubbio, se qualcuno vuole rovinare la vita di una donna prima o poi una mela finirà tra le sue mani.

La mela di cui voglio parlare, però, è quella di Alan Turing. Matematico e logico, padre della moderna informatica, così geniale da avere decodificato il codice nazista Enigma, con cui si trasmettevano in linguaggio criptato i messaggi tra le truppe tedesche. Peccato che dopo la guerra, vinta anche per merito suo, venisse processato in Inghilterra come omosessuale per atti osceni e condannato ad una cura ormonale devastante, che rovinò il suo fisico e gli fece crescere i seni. Nel 1954, Alan Turing decise di andarsene a modo suo: iniettò del cianuro in una mela e la mangiò. 

Si dice, appunto, che il simbolo della Apple, la mela morsicata, sia stato elaborato in onore suo. A me piace pensare che in quel mondo intersecato dove i pronomi lui e lei non hanno molto senso, patria che non ha frontiere tra il femminile e il maschile perché sceglie entrambi i sessi, Alan Turing abbia voluto dare un’ultima formidabile lezione all’umanità: un gesto apparentemente teatrale, da Biancaneve infausta, in un mondo di streghe che concepisce una sola forma di bellezza, quella dello specchio, dove tutto si somiglia, il regno sconfinato del Medesimo e dello Stesso, che no, non ha modo di riconoscere l’altro, perché intimamente cieco. 

Buon 17 maggio, Giornata mondiale contro l’omofobia e la transfobia.

giovedì 16 maggio 2013

Andamenti carsici linguistici




Mentre sfoglio le pagine della Historia del Mondo Nuovo di Girolamo Benzoni Milanese, che una mia ex alunna mi regalò a completamento della sua tesi, mi pare di poter concludere che la storia delle lingue riflette senza dubbio la storia che abbiamo compiuto. 

Alle porte del Nuovo Mondo, stupiti dalla lussureggiante natura delle nuove terre, conquistatori e scrittori si trovarono davanti l’impresa di descrivere per chi restava in Europa un continente sconosciuto con una lingua che ammetteva poco le contaminazioni. I primi cronisti fecero dunque ricorso a quella particolare tecnica chiamata scivolamento semantico, che consiste nel descrivere una nuova realtà con un termine appartenente alla propria cultura. Da qui il tapiro chiamato “ maiale dal muso lungo”, l’armadillo denominato “ topo”, i giardini di Xochimilco, alle porte di Città del Messico, descritti come Itaca. 

Ce ne volle di tempo prima che lo spagnolo ammettesse termini indigeni, prima che parole come hamaca o huracán trovassero la loro dignità ufficiale nel paradiso delle parole di buona stirpe. Nel frattempo, la chiusura linguistica rifletteva l’eccidio compiuto dai conquistadores nelle nuove terre ai danni degli indigeni. Intere civiltà distrutte da quello che ormai la storia considera come un vero genocidio. 

Di questi andamenti carsici linguistici, quando una civiltà di impone su un’altra con la prevaricazione e l’egoismo, è piena la storia. Le parole sono le prime a sparire e a registrare i cambiamenti d’ogni tipo. Bene lo sapeva Ignazio Buttitta, nella sua bellissima poesia “ Un populu”, quando scriveva che un popolo potete metterlo in catena, spogliarlo, chiudergli la bocca, ma è ancora libero. Potete levargli il lavoro, il passaporto, la tavola dove mangia, il letto dove dorme, è ancora ricco. 

Un populu
diventa poviru e servu 
quannu ci arrubbanu a lingua 
addutata di patri: 
è persu pi sempri. 

Dunque un popolo, una civiltà se volete, è persa per sempre quando gli rubano la lingua, adottata dai propri padri. Quella lingua che emerge di tanto in tanto qua e là tra i giornali e le cronache di questa Italia. Il sogno negativo italiano della Boccassini, l’inchiesta della Guardia di Finanza sull’Ilva di Taranto chiamata Ambiente svenduto, la “manifesta propensione a delinquere” nella sentenza del Tribunale di Milano sulla compravendita dei diritti tv con cui si descrive un noto ex premier. 

Ognuno resiste come può. E ricordare queste parole, tenerle bene in mente, non è l’attività innocua di anime belle. E’ schierarsi da parte di una civiltà che rischia di soccombere, che morirà per sempre se non salviamo la sua lingua coraggiosa dalla pacificazione di chi delinque, ruba e offende.