mercoledì 18 dicembre 2013

Teologia femminile




Esiste la teologia femminile, ebbene si. Ecco un piccolo assaggio. Sono debitrice a tre grandi teologhe italiane per questa riflessione, Elizabeth Green, Lidia Maggi e Letizia Tommasone. Buone feste, a risentirci a gennaio. 

La storia delle progenitrici di Gesù riserva sorprendenti scoperte. L’albero genealogico di Gesù, viene riportato in linea femminile al principio del vangelo di Matteo (Mt.1,17). Le genealogie sono piccoli discorsi teologici nei vangeli, non una banalissima e noiosa lista di nomi. Matteo vi enumera molte donne importanti, tra queste Tamar, Racab, Betsabea, infine Rut che, essendo una moabita, era discendente di una delle figlie di Lot. Queste donne hanno avuto una vita straordinaria e complessa. 

Tamar, per esempio, era la moglie di Er. Quando questi morì, fu data in sposa a suo fratello Onan. Ma anche lui conobbe presto la stessa sorte di Er. Tamar a questo punto fu promessa al terzo fratello, Sela, così come previsto dalle leggi del levirato, ma Giuda, padre di Er e Onan, per nulla entusiasta dell’idea di vedersi privato probabilmente anche del terzo figlio, si oppose all’applicazione della legge. La storia sarebbe finita qui se Tamar invece di arrendersi, mostrandosi remissiva così come comandavano le regole del tempo, non si fosse opposta all’arbitrio del suocero. 

Tamar decise infatti di sfidarlo e così divenendo la vera protagonista del racconto cercò di risolvere la situazione in modo piuttosto originale. Si finse una prostituta e approfittando di un viaggio di lavoro del suocero a Timna, dove era prevista la tosatura delle pecore, si coprì con un velo, poi si sedette ad aspettarlo lungo la via. Dopo il loro rapporto, Tamar pretese da lui alcuni pegni: il sigillo, il cordone e il bastone che Giuda aveva in mano. E tanto avvenne. 

Tamar, rimasta incinta di lì a poco, non fece nulla per nascondere la sua situazione, così la notizia arrivò alle orecchie del suocero il quale prontamente comandò di bruciarla viva, accusandola di prostituzione. Ma qui, come nel migliore dei feuilleton, accade l’imprevisto: Tamar gli rivela che è rimasta incinta dell’uomo a cui appartengono alcuni oggetti che ha conservato ed ecco apparire il sigillo, il cordone e il bastone. 

Come si vede dal racconto, il comportamento di Tamar è piuttosto difficile da comprendere in base ai giudizi della nostra morale, per la quale una donna, che si finge una prostituta in modo da avere un figlio per di più con il suocero, difficilmente risulterebbe una donna esemplare. Il che invece è del tutto legittimo secondo l’etica dell’Antico Testamento, per il quale ciò che conta è lo shalom familiare, cioè la trasmissione della vita. Tanto che lo stesso suocero alla fine dovrà ammettere di Tamar “È più giusta di me, perché non l'ho data a mio figlio Sela”, annullando in questo modo la condanna per adulterio che pendeva minacciosa sul capo della nuora. 

Tamar è dunque esemplare secondo l’etica dell’Antico Testamento perché si comporta rispettando le regole del levirato e perché si propone come scopo essenziale la vita e la salvaguardia della discendenza, finendo così con il garantire gli interessi dello stesso suocero. Questa caratteristica non è solo di Tamar, ma a ben vedere è ugualmente condivisa dalle altre antenate di Gesù. Racab, per esempio, era una prostituta di Gerico che nascose le due spie di Israele mandate da Giosuè in quella città così salvandogli la vita. Quanto alle figlie di Lot, il loro desiderio di assicurare una discendenza al padre si spinse fino all’incesto. 

Ciò che possiamo dire delle antenate di Gesù è che esse appaiono come delle donne fortemente motivate, amanti della vita e decise a difenderla fino a spingersi ai limiti di quanto umanamente loro consentito. Rut era una straniera (una delle categorie più disprezzate dagli ebrei del tempo), Betsabea un’adultera, Tamar si finse prostituta, Racab lo era veramente, quanto alle figlie di Lot erano delle incestuose, ma se hanno meritato un posto nella Bibbia è perché il profondo desiderio di generare la vita, la volontà ferma di trasmetterla nonché l’istinto femminile a proteggerla le ha rese esemplari agli occhi di un popolo. 

Da queste donne discende Gesù, da loro riprende l’amore per la vita, ma attribuendogli un significato profondamente diverso. La famiglia non sono fratelli e sorelle ma la comunità con la sua pratica del bene, non è fecondo chi trasmette vita alle nuove generazioni ma chiunque senza distinzione di popoli, generi, razze e orientamento contribuisce alla vita dignitosa dell’altro. Chi ne difende i diritti, chi combatte contro la sua povertà, fame e miseria

domenica 8 dicembre 2013

Medicina e chimere





Per quanto mi sforzi non riesco a comprendere per quale ragione William Hogarth, il pittore del celebre ciclo Marriage à-la-mode, esposto alla National Gallery di Londra, venga considerato un autore satirico e non piuttosto tragico. Il ciclo del Marriage racconta la storia di un matrimonio di interesse tra il figlio di un conte in crisi economica e la figlia di un ricco commerciante. Hogarth illustra la depravazione e decadenza di un legame così formato con sei tavole, tra cui la terza: The inspection. Qui si descrive la visita del conte nel gabinetto di un medicastro dopo aver contratto la sifilide. Al suo fianco, la giovane amante bambina, da quel che si può desumere, contagiata anche lei. Il conte appare quasi divertito dalla situazione porgendo la sua scatoletta di pillole al medico, la bambina al contrario sembra spaurita e persino ignara, del tutto in contrasto con l’ambiente di mummie, scheletri, ossa, teste di giganti e corpi imbalsamati che la circonda. C’è un’immensa pietà, una grande indignazione in questo quadro, non so dirlo in altro modo, ma anche una riflessione sarcastica sul rapporto tra scienza, sesso e denaro. 

La letteratura scientifica, letteratura intesa come creatrice di miti e simboli intendo, è davvero un capitolo interessante. In generale il suo linguaggio, quasi sempre di tipo ipotetico, che ragiona sul dubbio, evita la certezza assoluta fino a prova contraria, ha finito con il produrre suo malgrado una periferia di chimere e creature fantastiche, tra cui la cura più femminile al mondo, fonte di progresso ed emancipazione per le donne: la pillola contraccettiva. 

Le tesi che difendono o che invece accusano la pillola di provocare danni collaterali si inseguono e si contraddicono tra di loro. Ragione vuole che si vada direttamente ad una delle sue fonti, i foglietti illustrativi per esempio, quegli utili allegati ai medicinali che descrivono applicazioni e controindicazioni di un farmaco. Chiamati “ bugiardini” in Italia. Non so se sia ironia del caso. Fate voi. 

Le controindicazioni contenute in questi simpatici foglietti, tra le marche più note di contraccettivi orali, vanno dal rischio di sviluppare un coagulo di sangue venoso (trombosi venosa), in alcuni casi mortali, dicono proprio così” mortali”, all’infarto miocardico, l’attacco ischemico transitorio, le embolie polmonari, i disturbi alle ossa e così via allegramente. Abbondano termini come “sembra”, pare, in teoria, non esiste consenso unanime, può causare, in alcuni casi, a volte. Stile possibilista, si diceva. 

Non ci sono comunque dubbi sul fatto che pillola sia un farmaco che altera un sistema naturale, con effetti positivi (evitare gravidanze indesiderate) ed inevitabili controindicazioni. 

Ciò di cui si ragiona però non è il ritorno al decotto di prezzemolo, ma per quale motivo siano le donne a doversi interamente assumere i rischi collaterali dell’assunzione di un farmaco, come se fosse una faccenda loro esclusiva e privata la fecondità. Non so, prendete la Bayer che aveva presentato la sua pillola Yasmin, un nome dolce e femminile, come la pillola più sicura, leggera e con meno effetti collaterali di quelle delle generazioni precedenti, a cui la Food and Drug Administration dopo aver esaminato più di 835 mila donne ha ordinato di potenziare gli avvisi di rischio di embolia. Bayer che ha dovuto pagare 142 milioni di dollari di risarcimento nel 2012 alle utilizzatrici americane delle sue pillole anticoncezionali Yasmin e Yaz.

E’ un pensiero ingenuo credere che lo stato di subordinazione ed inferiorità in cui venivano e vengono tenute le donne abbia come suo unico teatro d’azione la famiglia e il lavoro, escludendo per esempio il campo della salute. Se una società è ammalata, giusto per rimanere tra metafore pertinenti, è ben difficile che la malattia sociale non coinvolga tutti gli altri ambiti. Medicina inclusa.

Nel migliore dei casi, poi, lo stile medico delle documentazioni si basa su argomentazioni statistiche. Ragiona sui grandi numeri, non sulle piccole percentuali. Tradotto in altra lingua: la grande percentuale di effetti positivi, contro il piccolo, insignificante, prossimo a zero numero di rischi. Basterebbe questo a farci nutrire qualche dubbio se sia il caso di continuare o meno a percorrere una strada, di cui la scienza non può garantire l’assoluta mancanza di rischi per la salute. Non può, perché non sarebbe scienza. La scienza deve aprirsi alla continua possibilità di essere falsificata, l’assoluta certezza non esiste nel suo ambito. 

La pillola invece è una strada considerata non solo la via maestra della contraccezione ma prescritta ormai come una vera e propria autostrada, visto l’uso e l’abuso con cui viene somministrata anche alle donne adolescenti. Sulla contraccezione maschile, nulla invece si sa. Scarsa documentazione, poche ricerche, molte delle quali interrotte al primo, lontanissimo segno di malore da parte dei pazienti. 

Dopo cinquant’anni dall’invenzione della pillola, una strada di progresso ma certamente anche asfaltata da effetti collaterali e morti femminili, ci si aspetterebbe qualche riflessione su un medicinale che inganna il cervello, altera l’ovulazione, blocca la fertilità e per causa di 4/5 giorni al mese di reale rischio di gravidanza costringe le donne a prendere una pillola per venti e trent’anni con notevole profitto da parte delle case farmaceutiche. Sui cui interessi economici e reale obiettività scientifica taccio.




lunedì 2 dicembre 2013

Traduzioni e straduzioni




Il geografo ed esploratore tedesco Humboldt (1769-1859), nel suo Breviario del Nuovo Mondo, narra un gustoso caso che ben spiega le conseguenze di un’errata traduzione linguistica. 

La lingua spagnola, pur nella sua varietà in grado di tratteggiare riccamente boschi e selve del continente americano, adottò il termine monte per riferirsi ad una gran parte delle pianure delle nuove latitudini. La conseguenza fu che molte carte inglesi, modellate sulla famosa mappa spagnola conosciuta con il nome di Cruz y Olmedilla, finirono con il trasformare i boschi del cacao, o montes, in vere e proprie cordigliere. Come se non si sapesse, aggiunse caustico l’esploratore nel suo saggio, che il cacao viene coltivato solo nelle zone pianeggianti più calde. Insomma, come a dire, che il buon senso dovrebbe funzionare da zenith principale là dove altre bussole perdono il loro nord. 

La diatriba se sia possibile o no tradurre da un’altra lingua senza tradire lo spirito del testo, anche per ragioni come quelle dell’episodio di Humboldt, mi vede assolutamente dalla parte di chi sostiene l’assoluta infedeltà delle traduzioni. A volte per colpa della sufficienza dei traduttori, altre per colpa del contesto. Gli esempi sulla goliardia, chiamiamola così, di certe traduzioni si sprecano, uno per tutti quello contenuto in un’edizione Adelphi di Miracolo a colazione della poetessa Elizabeth Bishop. 

Siamo nella poesia in cui la scrittrice immagina la vita affannata della sua amica a New York tra uno spettacolo e l’altro, mentre prende un taxi nel cuore della notte, in tutta fretta, aggiungendo “ as if to save your soul”, letteralmente “come se dovessi salvare la tua anima”. Qualcosa che si avvicina al nostro “ come se avessi l’anima in pena”, ma certamente mai al pregiato “ per prendere un fugone” con cui ci inebria il traduttore. Proprio così: un taxi nel cuore della notte/per prendere un fugone. Lì per lì ho pensato ad un animale stranissimo, il fugone, parente del visone siberiano. 

E che dire del terrificante “pederasta” con cui Carlo Bo ci delizia nell’edizione Garzanti delle poesie di Garcìa Lorca, in un componimento che pure il più astruso antilinguista coglierebbe nella sua delicatezza, già che il titolo contiene un diminutivo “ Canción del mariquita”, sì, el mariquita, un po’ come dire il femminiello napoletano, non certo il wagneriano soprassalto “ La canzone del pederasta” con cui Carlo Bo affonda l’intera poesia per non dire l’esistenza del poeta andaluso. 

Mi fermo qui. Aggiungo che a volte ho dovuto cercare per anni il corrispettivo di certe parole spagnole e che trovarlo mi provoca un autentico piacere linguistico che non so a quale sentimento associare in periodi di divampante corruzione semantica, oltre che politica e morale, come sono i nostri tempi. Si vive, è certo, come una sorta di gratitudine. Come se due scale, all’improvviso, in un punto si incontrassero. 

Certa, come sono, che le parole hanno due conseguenze se usate male. Nel caso delle traduzioni un incontenibile e spassoso genere di nuova comicità, nel caso della politica infermità e dolori di spirito, schiavitù psicologiche e trafitture mentali che meriterebbero un intero capitolo della medicina. 

Non so, per esempio, quel termine “ sinistra” in bocca a Renzi. La cui fedele traduzione si ignora, sostituita da un annacquata, scialba, inetta parola che somiglia alla sua origine come la cassapanca all'albero. 

lunedì 25 novembre 2013

Italia dei sepolcri




Quando gli austriaci arrivarono in Italia nel 1815, tentarono di ingraziarsi immediatamente le figure più importanti della cultura italiana, tra queste Foscolo, a cui venne offerto la direzione del prestigioso giornale La Biblioteca italiana. 

Gli austriaci si erano convinti che gli intellettuali in casa nostra si vendessero e comprassero al mercato come le castagne, chissà per quale ragione. Quella volta, però, si sbagliarono. In un primo momento infatti lo scrittore parve accettare la proposta, ma il giorno dopo scappò dall’Italia e non vi rimise più piede. 

Si tratta di un momento della vita del Foscolo che è divenuto oggetto di ampia discussione tra i critici, personaggi con cui lo scrittore non intrattenne mai appassionanti relazioni. Ricambiato in questo da un odio equivalente. L’idea di molti è che si trattò di orgoglio ferito. Foscolo deluso dalla pochezza dei propri compatrioti decise di non averci più nulla a che fare. 

Altri studiosi sono invece del parere che lo scrittore si sia reso conto di un’epoca che spariva e di cui egli era il sopravvissuto eroe. Insomma Foscolo, prima donna, star assoluta del panorama italiano delle lettere, mai si sarebbe adattato ad un ruolo di comprimario in un’epoca già vittoriosamente segnata da altre forme di lotta per l’indipendenza italiana come la Giovine Italia di Mazzini. 

Se si ha però la fortuna di leggere il suo epistolario, uno dei più grandi capolavori della letteratura romantica, opera sconosciuta e mai apprezzata nell’intensità del suo valore, basterà vedere ciò che scriveva dall’Inghilterra, dove scontò il suo esilio volontario, per restare impressionati dalla preveggenza con cui seppe intuire che l’Italia si sarebbe fatta, certo, ma quanto agli italiani c’era proprio poca speranza. 

Le lettere parlano anche della miseria dell’esilio, dello squallore di un uomo costretto a vivere mendicando prestiti, dando lezioni private. I soldi non bastavano mai, neppure per comprare un paio di guanti in modo da ripararsi dal freddo. A Catherine Russel, nobildonna inglese che in quegli anni di esilio sdegnosamente lo rifiutò, egli scrisse: “ Non ho più alcuna speranza da accarezzare, non ho più avvenire in questo mondo; largo com’è, non potrebbe offrirmi un soggiorno stabile e non l’accetterei, mi basta attraversarlo per riposarmi altrove ’’ .

Era il mondo ormai che gli stava stretto, non solo l’Italia. 

Sono queste le ultime parole e il testamento spirituale di uno dei più grandi scrittori della storia italiana, che non risparmiò proprio nulla ai suoi compatrioti accusandoli continuamente di codardia e di pochezza spirituale. Cose che non si perdonano a chiunque. E che poco si intuiscono dietro le noiosissime letture a scuola dei Sepolcri, con cui qualche cadavere di studente prende a galleggiare nelle ore mattiniere. 

Foscolo si era convinto che gli italiani non fossero capaci di storia. E che i cadaveri più autentici non si trovassero esattamente nei cimiteri. Dopo la qual cosa si prefisse l’esilio come un destino, lo visse come tale senza rimpianti. Sembra di intuire dalle sue ultime lettere che pur volendo, pur desiderandolo immensamente, non avrebbe potuto mettere a tacere in alcun modo la sua coscienza. Morì in Inghilterra, povero ormai e abbandonato da tanti, pochissime persone trovarono infatti l’orgoglio di accompagnarlo al suo funerale.

domenica 17 novembre 2013

Casa di signorine



Capirlo, signore,
chi vi parlò
della mia casa.

In realtà si sente
in ogni trave
come una goccia
che impazzì le mura.

La soglia e il nespolo
spezzò la porta.

Quanto all’estate
pare svenire
sotto la fatica
di cupe raffiche.

Un manovale
- assai spratico -
con edifici
d’ampia metratura

la volle che pericola
tra due versanti,
come chi voglia
sfidare un danno.

Sghemba, m’intende,
senza misura.

Le zie signorine
lo sapevano
che il demonio ride
tra gli invitati.

Certe che il vento
nessuno lo vede
a furia di dire
le nostre stanze  

domenica 10 novembre 2013

I mangiatori d'oppio




Si narra che Annibale, ad un passo dal distruggere Roma, fece riposare le sue truppe presso Capua, in attesa di rinforzi dalla madre patria, matrigna assai nel suo caso, che mai giunsero. Il senato cartaginese, geloso del suo genio e delle sue vittorie, lo lasciò nel sud Italia per dodici anni, senza alcun aiuto. Iniziò così la vera o leggendaria epoca degli ozi di Annibale, delle sue mollezze, in una Capua dipinta, da chi vinse romanamente, come una sorta di città tenutaria di bordelli e di innominabili piaceri. La storia, comunque, ha di queste improvvise attese, che si prolungano, non si sa bene in che termini. 

La letteratura, per risonanza, non poteva lasciarsi scappare il tema della smemoratezza generale, dell’oblio in cui certe volte sembrano cadere gli eventi o la loro parvenza. Il poeta inglese Tennyson nel poema “ The lotos eaters” narra dell’arrivo di Odisseo e dei suoi compagni di ventura in una terra dove un eterno crepuscolo sembra regnare, come una meridiana ferma e fissa. L’isola è popolata dai mangiatori d’oppio, creature dagli occhi miti e colmi di malinconia, dal colorito pallido ed esangue che offrono i fiori del loto ai marinai. Una volta assaggiato il fiore, i compagni di Odisseo si rifiutano di seguirlo verso Itaca, dichiarando la loro volontà di restare nelle terra delle penombre, lungo la spiaggia a sognare, ascoltando il battito del loro cuore. Nell’inerzia assoluta.

La stessa sensazione di aria viziata, di intenti abbattuti da volontà che si scorda, l’ho avuta leggendo, in mancanza di altra autentica letteratura, i verbali degli interrogatori di Carmine Schiavone, reperibili su internet, nel sito di Repubblica. Vi si narra di come la camorra, con il consenso di uno stato per lo più colluso e assente, abbia avvelenato in trent’anni una delle zone più belle dell’Italia, la Campania, sotterrando tra campi e autostrade tonnellate di rifiuti tossici e velenosi. 

Non che non si abbiano sussulti durante la lettura della testimonianza. Un soprassalto, al limite della comicità, lo si prova quando il pentito a pagina 10 della sua deposizione dichiara di avere versato gli introiti del traffico illecito nella casse dello Stato. A quel punto, il presidente della commissione d’inchiesta fa un salto sulla sedia. Dico “fa un salto sulla sedia” nel senso che me lo immagino, in quanto nel verbale non c’è ovviamente nulla che si riferisca ai fuori scena. 

“ Vuol dire nelle casse del clan?” --- lo corregge il presidente (poiché l’autentica letteratura lascia sempre uno spazio all’immagine del lettore potremmo pure immaginare dei puntini di sospensione a questo punto…). 

“ E’ lo stesso, più o meno” --- ribadisce Schiavone (senza scomporsi, verrebbe proprio da pensare).

Presidente, incalzando: “Perché dice che è lo stesso?”.

Schiavone, con tono sicuro: “ La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato…Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan quanto avrebbe forse potuto esistere?”. 

Dunque, non mi riferisco a questi e tal altri spunti di tragica comicità che si leggono tra le righe del verbale, quanto ai mangiatori d’oppio di uno stato, che a venti e passa anni da queste dichiarazioni non hanno mai avviato un piano di bonifica e recupero per una tragedia che è una vera e propria emergenza nazionale che nulla ha da invidiare alle varie Chernobyl o Fukushima. 

E se la letteratura altro non è che realtà meditata, in un mondo che ben volentieri riposerebbe dai nostri nomi, non si può non pensare ai politici che hanno allegramente contribuito alla morte della Campania. Proprio lì, nel momento in cui Schiavone in modo memorabile solleva le mani per mostrarle. Qui non è molto difficile immaginare il gesto, leggero, davanti il viso del presidente, probabilmente inebetito mentre gli dichiara:

“ Ora conduco una vita diversa… Vede che belle mani? Sono tornato alle origini”.

giovedì 31 ottobre 2013

Il mondo è trans





Una critica contaminata e spuria non può che domandarsi dalla soglia di quale mondo parliamo. In questo senso assume una sua voce (mi sono sempre chiesta che timbro vocalico abbia quel superIo grammaticale che pone domande inopportune atte a riconoscere i vari complementi, tipo: il moto a luogo è il complemento che risponde alla domanda “ verso chi, verso che luogo?”, chi porrebbe una domanda così insensata ad un mondo parlante?). 

Questa voce parla da un mondo che decade. Il mare a cui si riferiva Baudelaire nel suo fulminante incipit alla poesia L’uomo e il mare, “ Homme libre, toujours tu chériras la mer!”, è il mare così come lo conosciamo oggi? La poltiglia avvelenata da tonnellate di plastica di cui parla il lirico documentario The broken ocean o il liquame velenoso su cui si interroga James Ivory nel cupo Trashed (ambedue a proposito sconosciuti dalle nostre parti…)? Le balene al largo delle coste del Giappone, uccise o ammalate causa le acque radioattive degli sversamenti della centrale di Fukushima, sono lontanamente parenti della mostruosa Moby Dick? 

Forse sarebbe più onesto ammettere che ogni linguaggio, quindi ogni prodotto letterario, ha un “ centro deittico”, uno spazio e un tempo collocati fuori dalla parola scritta o pronunciata, senza il quale, però, non capiremmo nulla di ciò che stiamo dicendo. E nulla della nostra condizione umana. Un po’ come quando ci viene recapitata una frase riportata da una sconosciuta lettera: ”Due settimane prima ero già stato qui” (Due settimane prima rispetto a cosa? Qui rispetto a quale luogo?). 

Così necessario questo centro, così essenziale il raggio di questa ruota (La circonferenza è la mia occupazione diceva Emily Dickinson…) al punto che non possiamo immaginare un testo senza un contesto. Naturalmente il centro deittico è cosa viva tranne che per chi fa accademia. Vive, respira, si trasforma. E’ fuggente, errante, destabilizzante, perennemente in transito. Anzi, parafrasando Porpora Marcasciano, presidente del MIT (Movimento Identità Transessuale) è il mondo stesso ad essere trans, a differenza di quanti pensano sia ben definito e ghettizzato tra categorie fisse, prima delle quali la categoria del maschile e del femminile. 

Scrive Porpora: (…) L’esperienza trans come ridefinizione di sé è precarietà in quanto spostamento semantico continuo: exodus, riposizionamento, trasformazione, significati e significanti quindi del “transito”, il moto “da-a”, da qualcosa di socialmente determinato a qualcos’altro di indeterminato. Rispetto al diverso valore che possono avere i termini di determinatezza e indeterminatezza opera una sana sospensione di giudizio, sottolineando però la valenza positiva del secondo termine che in quanto indeterminato è più aperto alla ricerca e alla conoscenza. L’esperienza trans in quanto tale è in evoluzione, come dice la parola stessa, è movimento di soggetti e contemporaneamente di culture.(…) L’exodus trans, in quanto ricerca, è ricchezza, in antitesi con quanti/e, anche in ambito libertario, immaginano e collocano l’esistenza, compresa quella trans, tra due punti: uno di partenza e uno di arrivo, che dovrebbero coincidere più o meno con partenza dal maschile e arrivo al femminile o viceversa. L’assillante logica di determinare, definire sesso, genere, sessualità è propria di una cultura eterosessuale/omoculturale

Il tutto in un bel saggio scaricabile da internet, dal titolo Oltre l’identità: transito e molteplicità nell’era precaria, il cui sotto paragrafo recita “Transiti tra generi, sessi e paesi. In fuga dal pregiudizio e dalla povertà: transessuali alla ricerca di se stesse”.

Questo gioco di riposizionamento continuo delle parole e dei significati è forse il compito più alto di ogni letteratura e di ogni critica letteraria. Non si può ignorare quanto le nostre parole viaggino perché viaggia il mondo che le trasporta, così come la barca per suo mestiere e vocazione è lentamente consumata dall’acqua del fiume. Se il mondo è trans allora anche il nostro sguardo dovrebbe cambiare. Altrimenti, ci sfuggirebbe l’essenziale. Vedremo solo un fenomeno da baraccone in ogni corpo che muta. Porpora Marcasciano scrive ancora queste bellissime, rivoluzionarie parole: “l’esperienza trans decostruisce corpi, identità, culture: è l’elemento acqua che lambisce e tocca l’elemento terra, è il mare che nel suo moto perpetuo trasforma la linea di terra”

Vi aspetto questo giovedì, 7 novembre alle ore 20,30 in Sala Arcobaleno, presso la Chiesa Valdese di Milano, per parlare con Antonia Monopoli, responsabile Sportello Trans ALA”, sul tema “I nuovi volti della famiglia, la realtà delle famiglie trans gender”. Antonia oltre a militare e lottare attivamente contro la discriminazione e la transfobia esponendosi sempre in prima linea ha contribuito alla realizzazione di tre documentari sulla realtà trans: “Crisalidi 5 racconti di vita trans” di Federico Tinelli, “O sei uomo o sei donna.. chiaro?!” di Enrico Vanni, “Antonia” di Dimitri Singenberger. Ha poi contribuito alla realizzazione dei libri di Monica Romano “Diurna”, è attrice per la compagnia teatrale sull’identità di genere e protagonista del progetto-documentario “Le cose cambiano” sostenuto ed edito dal Corriere della Sera.

Perché se le cose cambiano, anche gli occhi dovrebbero cambiare.



mercoledì 23 ottobre 2013

Le troppe porte



Poche cose come il nulla felliniano. Gli abissi di paillettes, lustrini e nastri con cui il regista allestiva la scena della decadenza di un Italia allo sfacelo. Ai suoi margini, il popolo di matti e scemi che con i propri gesti inconsulti, in controcanto, ne segnava l’orrenda vacuità. Lo splendore dietro cui si nascondono gli spazi larghi della nientità (a differenza della nullità, così estremamente contagiosa..) non sempre può assumere le forme di una denunzia. Può divenire culto dell’apparenza, travestitismo puro. 

Dichiarava Holly Woodlawn, una delle girlettes di Andy Warhol, diva del glamour e del gender come opera d’arte, che l’artista americano era un grande quando si trattava di apparenza, impegnato come i tanti trans che popolavano la Factory a nascondere il suo vero “ io” dietro una maschera zuccherosa. Sugli abissi della nullità di un mondo alla deriva, popolato dal culto del successo e della gloria, si può folleggiare come facevano nella vita reale le girlettes Holly, Jackie Curtis o Candy Darling, quest’ultima morta all’età di 29 anni, a causa di una leucemia probabilmente causata dall’abuso di ormoni femminili. 

Non negherò che la forma abbia profondità tali da raggiungere, a volte, il suo contenuto. Tuttavia Holly, Candy e Jackie inseguivano il loro personale mito di femminilità rinchiuse in corpi di uomini. Esisteva una traccia, grazie alla quale leggere la vacuità sottostante. Un nulla capovolto. 

Francesco Grasso, autore del bel libro “ Dietro la porta”, narra un episodio della sua vita di ragazzo di strada nel quartiere San Berillo a Catania davvero illuminante. Nell’episodio, più che narrare, spiega cosa significava per i contrastati come lui vedersi morire un cliente in pieno atto sessuale. Pratiche burocratiche, familiari, soprattutto polizia e tante, tantissime spiegazioni. E’ il lato prosaico della poesia, il racconto oscuro della famosa scena in cui tanti film e libri si sono cimentati osannando la dolce morte, in cui si celebra la fine stremati dal piacere. 

La nientità finisce in generale con l’infondere l’idea che gli artisti siano dei procacciatori di bellezza, in crisi permanente da ispirazione. Il cui unico compito sia quello di stabilire chi possa partecipare ai loro salotti e chi no in base ad una personale discriminante. Cosa il bello, cosa la tristezza, cosa l’estenuante splendore. L’artista come arbitro di eleganza e guastatore di feste. Della stessa razza di quelli che hanno provato una sola emozione nella loro vita e vi hanno scritto un intera biblioteca, oppure hanno rifiutato di continuare a scrivere, salvo procacciarsi la vita scrivendo per i giornali, come accade nel film “ La grande bellezza”. Dico “scrivendo per i giornali”, ma con un certo dubbio, poiché nel film sembra che il protagonista scriva articoli, sì, ma esercitando altre arti, come quella di suonare il flauto, già che sono tutti lì a chiedergli perché ha smesso di scrivere quando era giovane. 

Spiace questa idea farlocca di artista che confonde mondo con mondanità, sebbene, lo si può ammettere, è idea parecchio condivisa. E da molti che immaginano uno scrittore mentre siede e aspetta l’ispirazione o fissa un tetto che si riempie di azzurro. A costoro auguro parole. Come quelle che pronunciò Giò Stajano, colei che ispirò, si dice, la famosa scena di Fellini (e non solo) della Anita Ekberg nella Fontana di Trevi, anticipandola con un bagno alla Barcaccia di Piazza di Spagna. 

Ospitata in un convento a Vische, negli ultimi anni della sua vita, accolta tra le novizie delle suore di Betania le furono rifiutati i voti esclusivamente per motivi di età. Per il resto “ anatomicamente donna” dichiarò di volere vivere in pace gli ultimi anni, sgranando i suoi rosari, dopo avere scandalizzato l’Italia con la sua dichiarata, ostentata, spettacolarizzata transessualità. “ Ho aperto le troppe porte”, ebbe a dichiarare a chi le chiedeva una qualche spiegazione. 

Dichiarazione che somiglia tanto, ma tantissimo a quell’altra di Holly Woodlawn, quando liberata su cauzione grazie all’intervento di Larry Rivers, esclamò a costui che la guardava inorridito per i peli e la barba che in prigione le erano cresciuti: “ Nulla di serio, caro, è solo un po’ di realtà che ha preso il sopravvento”. 

Ecco, un augurio, solo questo: un po’ di sana realtà, in questa Italia, che prenda il sopravvento

martedì 15 ottobre 2013

Sindrome da Cassandra




Si potrebbe dire che ogni parola è tale solo se concepisce la natura dello zero.

Non è di nessuna teologia o stato di polizia l’idea di un infinito negativo. Incarnato da chi si sottrae e rivendica per sé il diritto di non definirsi né di essere definito con la “ parola” in oggetto qualunque natura essa abbia. In epoca di frantumazioni linguistiche, poi, la scelta del rifiuto dovrebbe essere ancora più comprensibile. 

Si consideri la fenomenologia del termine “povertà”. Oggi i nuovi poveri hanno spesso cause diverse dai poveri del secolo scorso e si rimarrebbe sorpresi dalle ricerche che enumerano tra i motivi di emarginazione sociale il divorzio, soprattutto per le donne più che per gli uomini. Gli studi confermano che la famiglia costituita da due impiegati con un figlio affetto da distrofia muscolare è per esempio il nuovo soggetto a rischio di povertà nell’Italia contemporanea.

Quanto al sostantivo “famiglia”, la scrittrice Laura Zanatta nel suo libro “ Le nuove famiglie” enumera almeno una decina di nuove galassie familiari: famiglie di fatto, omosessuali, bigenitoriali, unigenitoriali, ricomposte, le emigranti, le unipersonali che si considerano ceppo familiare ma vivendo in case diverse e altro. Difficile riscontrare nella realtà la famiglia totemica in nome della quale i diritti di molti vengono calpestati e umiliati. O definiti. 

Non bisogna avere letto Lacan per capire che la costituzione di un’identità personale è innanzitutto un confronto e scontro nei riguardi di certe affermazioni linguistiche, a cui per buona logica e nobiltà etica dovrebbe sempre corrispondere la possibilità della loro negazione. Nasciamo tra parole già esistenti, formate, per lo più imposte che ci determinano. Il vero costituirsi di una personalità non si svolge intorno al nucleo disomogeneo del complesso di Edipo, semmai intorno a quello di Cassandra. Colei che disse, predicendo il futuro. Parole a cui nessuno poteva o voleva sottrarsi. Per questo, le parole non possono essere considerate eventi solitari o fenomeni puramente linguistici. Senza alcun attinenza con il contesto, che è prima di ogni altra cosa contesto umano, tessuto connettivo di nervi e muscoli. 

L’affermazione, o azione dovrei dire, secondo la quale esiste una sola famiglia tradizionale si basa su un’idea di mondo che non esiste più e che non è mai esistita. Dove, nella maggior parte dei casi, le donne venivano negate e i figli erano considerati proprietà privata dei genitori. Usata nelle modalità legislative e politiche della patria nostra ad essa sfugge la natura dello zero. Discende direttamente dalla pubblicità proprio come i giocattoli o gli unicorni. 

La Bibbia, da parte sua, non riesce a concretizzarla e renderla meno eterea, poiché tra le sue pagine qualcuno ha contato più di 33 tipologie familiari diverse. La Bibbia, infatti, ci presenta un ventaglio di situazioni variegate, con i legami familiari più diversi: vedove, orfani, nuore in compagnia di suocere, donne che aspettano bambini ma non dal proprio marito, uomini con legittima sposa al seguito più caravanserraglio di concubine e schiave, fratelli che vendono ai mercanti di schiavi i propri fratelli, se proprio non li uccidono, uomini che offrono figlie o concubine all’ira del nemico di turno perché vengano fatte a pezzi. Difficile, come minimo, affermare che ci sia pari dignità tra uomo e donna all’interno di questi legami familiari.

Su questi unicorni e giocattoli, tuttavia, i miti sociali si pietrificano come le sfingi, a danno di adolescenti per lo più ignari della nullità intrinseca di ogni parola. Nulla di strano che figli e studenti diventino anoressici, bulimici, dissociati, vittime di bullismo perché la loro “ famiglia” è ben lontana dalla cosiddetta famiglia tradizionale. 

La perfida ipocrisia di chi usa determinate parole solo per difendere i propri interessi e regimi sociali cerca sempre complici, anime candide, farfalle cafone persuase che la “famiglia tradizionale” consacrata dal matrimonio sia un’opinione come un’altra, mentre è dittatura legislativa che misconosce, ignora e offende la dignità di milioni di cittadini che in quella tipologia non si riconoscono o non è consentito loro di riconoscersi.

Non si illudano le farfalle cafone, quindi. Esse difendono con i loro buoni intenti la libertà, è vero. Ma si tratta della libertà di una dittatura di escludere e offendere chi gli pare. 

sabato 5 ottobre 2013

Il poeta dalla testa grossa





C’era un poeta che viveva in una casa nelle campagne di San Vicente, un gelsomino bianco e uno azzurro stavano a guardia della sua porta. Lo chiamavano il poeta dalla testa grossa. Rafael Rodrìguez Rapùn era il suo amante. Dopo che uccisero il poeta, Rafael si arruolò tra le fila dei repubblicani. Lo mandarono in Cantabria. Durante un attacco aereo non cercò riparo come i suoi compagni, lasciò che lo colpissero. Gli spararono alle spalle e alla regione lombare, morì nell’ospedale militare di Santander, esattamente un anno dopo la morte del poeta dalla testa grossa. Aveva 25 anni. 

Giusto un anno prima, né un giorno più né un giorno meno, erano arrivati i militari a prendersi il poeta che era stato denunciato come repubblicano, comunista e omosessuale. Non sappiamo in che ordine andarono queste parole né chi le mise in fila. Uno degli assassini si chiamava Juan Luis Trescastro. Dopo che gli spararono, Juan Luis irruppe nel bar, dove erano soliti riunirsi gli amici del poeta, dichiarando a gran voce di avergli messo “ due pallottole nel culo” perché omosessuale. 

Non si sa molto dei resti del poeta. Governi di destra e governi di sinistra hanno cercato di dimenticare gli anni della guerra civile che divise il paese, accomunando vittime e carnefici, calando una pietra tombale sui caduti e sui familiari che cercano ancora i loro corpi. 

Del resto, poco si sa pure della tomba di Trescastro. I suoi familiari non osarono ricordarlo qualche anno dopo, quando morì, con una lapide commemorativa come colui che aveva ucciso il poeta. Nella confusione del momento, dimenticarono anche la targhetta in cui iscrivere il suo nome.

La vita, però, ha una sua giustizia irriverente verso le faccende umane. Del finto dolersi dei politici che non hanno mai cercato seriamente i resti del poeta, sa farsi beffe. Non c’è dubbio: la storia possiede una grande serietà per ridere di certe cose. Nel caso del nostro poeta i documenti mormorano che egli fu ucciso in una zona di Granada conosciuta come la Fonte della Lacrima. La sorgente, il cui vero nome è Alfacar, è nota nel paese perché i sovrani arabi della dinastia Ziri, fin dall’XI secolo, l’avevano utilizzata per costruire un sistema di canali che alimentasse la sete perenne delle contrade. La fonte, fin da allora, è stata uno dei luoghi più celebrati dagli scrittori cristiani, ebrei e musulmani. Gli assassini del poeta che lì lo condussero forse erano poco edotti sulla faccenda. In generale, li ricorderemo come avvelenatori di pozzi e di sorgenti. Oltre che come assassini di poeti. Così sembra che le parole più appropriate e profetiche su questa triste storia le abbia dette giusto Neruda nella sua visita in Spagna. “ La Spagna non ha fiumi” --- scrisse in quell’occasione--- tutto ciò che ha al posto dell’acqua sono i poeti”. 

Frase che potrebbe suonare paradossale, soprattutto alle orecchie dei mezzi scrittori e dei mezzi poeti. I quali non verranno mai uccisi da una falsa coscienza. Se è vero com’è vero ciò che scrisse lo studioso Ian Gibson sulla morte del poeta, dichiarando a suo parere che egli era stato ucciso innanzitutto da uno stato mentale. 

Qualche anno addietro, il 28 ottobre del 2007, anniversario della marcia su Roma, a San Pietro vennero beatificati 498 franchisti, come “martiri della Repubblica” responsabili di quello stato mentale. La chiesa vaticana in modo discreto esprimeva così il suo disappunto al governo Zapatero il quale stava per varare una legge sulla memoria che condannava il franchismo e la chiesa cattolica spagnola per i fatti della Guerra Civile. 

Appunto. Resta da dire che della tomba del poeta, inesistente, non mi dolgo. I veri poeti non dovrebbero mai avere tombe. Come l’acqua che ha semplici dimore, di ciliegio e pietra.

Tanto si doveva a Garcia Lorca.


domenica 22 settembre 2013

Di che amore siamo fatti?




Domani 23 settembre alle ore 18.00, alla libreria Claudiana di Milano di via Sforza, avrò il piacere di presentare, insieme all'amica Simona Menghini, una delle responsabili della campagna Otto per mille della Chiesa valdese,  il libro di Laura Tappatà, a suo tempo docente all’Università Cattolica di Brescia, dal titolo “ Troppo amore”.

Il libro ha il merito di presentarsi come un manuale di facile lettura su uno dei temi più attuali del momento: la dipendenza affettiva nelle donne. 

Geometricamente, questa tragedia dell’animo femminile potrebbe rappresentarsi come una spirale dai circoli sempre più ampi destinata a ripetere se stessa all’infinito, una malattia del tempo fermo sempre nello stesso istante, il cui copione non smette mai di trovare attrici. Nella sua forma più estrema il dramma ripetuto in ogni età, in ogni nuova e antica relazione, apparentemente diverso nei visi che si incontrano ma sostanzialmente sempre identico, è presto delineato: una donna si lega in relazione con un uomo (o con un’altra donna, esempio non secondario), che potremmo chiamare il codipendente, figura problematica in grado di scatenare in lei la sindrome da redenzione. 

Di solito il partner vive altre forme di dipendenza come l’alcolismo o la droga, ha subito violenze e abusi sessuali, soffre di disturbi nella sfera emotiva in grado di risvegliare nella donna il mai sopito ricordo di analoghi drammi da lei sofferti in età adulta o da bambina. Tanto basta per scatenare in lei l’impulso della redentrice, la voglia insaziabile di cambiare e aiutare il suo partner. Il dramma si scatena come una sorta di contratto tacito e sottoscritto: la dipendente si impegna a vivere in funzione del partner, disposta ad ogni sacrificio per lui in una corsa che non conosce limite, che implica la rinuncia alla propria vita personale, ai propri interessi, al lavoro e persino alla salute, il codipendente si impegnerà a sabotare tutti i suoi sforzi per salvarlo. 

A questo punto è necessario una pausa. Linguistica, potrei dire, una riflessione semantica su cui sia Robin Norwood che Laura Tappatà giocano molta parte della loro analisi. Ci sono parole sbagliate che abbiamo usato in modo sbagliato. Come amore, sacrificio o pietà. L’idea che l’amore sia sacrificio, da parte delle donne almeno, ben lontano dall’essere considerata una degenerazione morale e psichica è stata esaltata dall’arte e dalla religione. Un’idea malata per una società malata. Si potrebbero citare a dozzine i libri e le opere artistiche che hanno osannato questo scriteriato altare in cui si sono immolate vergini e spose. Poche invece le opere che lo hanno dipinto crudamente per l’inferno che realmente comporta, da “Il Portiere di notte” a “La donna che sbatteva le porte”. 

Rimuovere queste incrostazioni dalle parole diventa dunque necessario. L’analisi psicologica diventa geologia linguistica sia per le pazienti che per le terapeute o le studiose. Un’operazione necessaria verso il recupero del proprio equilibrio emotivo. In questo nuovo panorama anche il concetto di “pietà” subisce uno slittamento. Difficile dire nella dipendenza affettiva chi sia la vittima e chi il carnefice. Certo, di solito la donna rappresenta il lato più debole della dipendenza, colei che subisce gli abusi, la violenza verbale, economica e fisica, verso cui lentamente e in modo inesorabile scivola la relazione. 

Tuttavia, la Robin Norwood dice qualcosa di più che potrebbe suonare crudele alla coscienza di molte donne, crudele come forse dovrebbe essere l’autentica pietà: se le donne si lasciano trascinare in queste forme di morbosa patologia è anche perché segretamente consumate dall’idea di essere Dio, anche perché educate da millenni di storia all’impulso profano di salvare e cambiare gli altri rinunciando al loro progetto umano e femminile. 

Tuttavia, nessuno che voglia cambiare l’altro ama veramente. Questa è l’essenza delle riflessioni delle due autrici. E questa se si osserva bene dovrebbe essere l’essenza di ogni religione. Il discorso, ovviamente, non è tra credenti o non credenti. Il discorso riguarda l’idea che la bambina o la donna adulta hanno di se stesse. Nessuna terapia di recupero può funzionare senza l’accettazione da parte delle donne, laica o religiosa, dei propri limiti. Non c’è salvezza senza questa rinuncia all’idolatria della propria potenza salvifica, che può riassumersi in estrema sintesi nell’idea che non possiamo salvare nessuno che non voglia essere salvato, non possiamo cambiare altri se non noi stessi.


Il merito del libro di Laura Tappatà, che avrò dunque il piacere di presentare anche il 16 ottobre all’Alveare di Milano, è dunque a mio parere l’avere esteso l’analisi della Norwood ad una dimensione più ampia che include l’aspetto sociologico. E’ questa nostra epoca, l’epoca delle “passioni tristi “ secondo una definizione di Spinoza che l’autrice ama ricordare. Un’epoca in cui il senso smisurato dell’io e il culto dell’utile ci hanno privato di “ competenza personale”. Quel bagaglio di valori fondamentale per ogni essere umano che porta alla consapevole accettazione della propria storia emotiva, che include la conoscenza dell’amore di cui siamo fatti. 

E’ necessario infatti comprendere il tipo di relazione affettiva, l’imprinting che ci è stato dato dalle nostre famiglie, sano o squilibrato, sicuramente non sempre perfetto, che è necessario correggere se si vuole una relazione matura, basata sull’accettazione dei propri e altrui limiti. Tutte, infatti, nella forma più estrema o più lieve possiamo soffrire di dipendenza affettiva. Non ci sono classi sociali né tipologie di donne esenti da questa forma di patologia che è assolutamente trasversale. 

Senza la competenza personale, siamo destinate a ripercorrere non una ma cento volte la stessa storia di abbandoni e tristezze che abbiamo conosciuto nell’infanzia, cristallizzate come statue di sale, ferme nello stesso fotogramma, prigioniere dello stesso copione in cui il tempo trascorre falsamente, si finge tempo, confonde il prima con il dopo e come una goccia d’acqua, in modo ossessivo, è in grado di far impazzire le nostre case.   


sabato 14 settembre 2013

Il narcocorrido



Una critica contaminata non può fare a meno di un capitolo di osservazione sociologica come il narcocorrido. 

Agli inizi del ‘900 in Messico il corrido era una composizione poetica in coplas di otto sillabe, struttura metrica che sta alla poesia spagnola come l’endecasillabo a quella italiana. Si tratta di una sorta di ballata, molto popolare durante la rivoluzione di Emiliano Zapata, che veniva utilizzata da contadini e peones per narrare gli eventi più eclatanti della rivoluzione, in un’epoca in cui non esisteva la televisione e la stampa era privilegio dei pochi che sapevano leggere. Un genere poetico la cui funzione sociale era simile a quella dei vecchi cantastorie delle nostre piazze. 

Con il tempo il corrido, i cui protagonisti erano i grandi leader della rivoluzione impegnati a liberare i territori messicani dall’oppressione dei latifondisti, si è andato evolvendo in quello che oggi viene comunemente chiamato “ narcocorrido”. I suoi protagonisti non sono più rivoluzionari o contadini che difendono le loro terre, ma narcotrafficanti, capi mafia e cartellisti celebrati come autentici eroi, sprezzanti del pericolo della morte, disposti a tutto pur di entrare nel “bisnes” della droga uscendo così dalla miseria, degni di ammirazione per la loro lotta verso il benessere ed un vita degna in un mondo in cui non vi sembrano essere altre alternative che conducano alla prosperità. Uccidere o essere ucciso sono gli estremi eroici in cui si muove l’equilibrismo del narcocorrido. 



Nato verso gli anni settanta, in un periodo in cui il Messico diventava terreno di transito della coca trafficata dal Sudamerica e diretta in quel mercato colossale che sono gli Stati Uniti, il narcocorrido è andato sviluppando le sue tematiche, (fuoristrada carichi di droga, la frontiera, la migra o polizia doganiera, la sierra, il traditore venduto alla polizia, la merce chiamata con nomi di animali, per esempio la capra per indicare la cocaina o il gallo per l’eroina, le armi, le belle donne e gli amici fedeli del trafficante) oggi contando con gruppi di notevole successo come Los Tucanes de Tijuana o Los Tigres del Norte, autori di uno dei narcoccorridos più famosi che è Contrabando y Traiciòn. 


Un caso di eclatante sovvertimento dei valori, di contrabbando letterario in cui si spacciano imprese delinquenziali ed omicidi come atti eroici, che affonda le sue radici nella frontiera della cultura precolombina e indigena, risalendo fino alle foreste dai molteplici rami del realismo magico (la cui data simbolica in America Latina è la pubblicazione di Pedro Paramo di Juan Rulfo nel 1955, viaggio di una voce narrante a Comala, paese che si scopre pieno di anime defunte), territori dove i vivi parlano con i morti e sottilissima, per non dire inesistente, è la linea che separa la vita dalla morte. 

Che la morte sia la compagna costante del narcotrafficante, lo dimostra il culto delle narcotombe, cappelle faraoniche e pantheon cimiteriali, costruiti dai boss mafiosi ancora in vita. In un paese, dove la festa principale, dichiarata Patrimonio dell’umanità non è Natale o Pasqua, ma giustappunto il Giorno dei Morti. 


Curioso fenomeno che pone inquietanti domande su ciò che Edgar Morin definiva “ la democrazia cognitiva”. La democrazia dove il cittadino esercita il diritto di conoscere non solo il particolare, il dettaglio, l’episodio singolo, ma il sistema che tiene uniti i singoli fenomeni. Criterio che applicato al narcocorrido sembra condurre alla conclusione che la conoscenza del particolare, quando ridotta al minimo per causa di miseria, sopruso, assenza dello stato e delle leggi, si radicalizza nella sola conoscenza dei due fenomeni essenziali della nostra esistenza: vivere e morire. Tra i due estremi, non c’è tempo per nulla. 

 Il narcocorrido, peraltro, non dovrebbe destare sorprese in Italia dove un fenomeno simile, rappresentato dal lato oscuro della canzone neomelodica napoletana, esiste già da tempo. Non solo perché la camorra a Napoli è diventata produttrice e casa discografica trasformando la musica in un mezzo per il riciclaggio del denaro sporco, ma anche per testi dal titolo emblematico come “Il mio amico camorrista”, o “Femmena d’onore” in cui, tra le altre cose, i pentiti che denunciano alla polizia vengono definiti “ guappi di cartone”. 

Che dire: di altri, di là della sapienza, di civiltà supreme, davvero resta niente, dove le leggi tacciono e i giusti si perdono tra i sogni.




lunedì 9 settembre 2013

Le braghe italiane

Mi chiedo se qualcuno ha mai scritto una poesia per Daniele da Volterra (un po’ come fecero Pasolini e il poeta Browning dedicando versi ad illustri pittori) l’apprendista di Michelangelo, chiamato a dipingere drappi, panneggi e perizomi detti "braghe" per ricoprire le figure “ignude” della Cappella Sistina, che gli valsero il soprannome di "Braghettone". 

Il braghettonismo è una grande tentazione morale, una versione nostrana del puritanesimo inglese che portò alla chiusura dei teatri a suo tempo, nell’epoca di Shakespeare; una sua fantasiosa interpretazione in terra dalla doppia morale e dal viscerale bigottismo che si accompagnano alla sessualità com’è tipico in Italia. 

Se il puritanesimo è tragico, però, il braghettonismo è comico. Non consiste in una pretesa di purezza e coerenza estreme tra la vita privata e la pubblica, tensione che ha prodotto capolavori come La lettera Scarlatta di Hawthorne, no, perché il braghettonismo si limita nel senso letterale e metaforico a stendere un velo sulla questione sessualità. In una sorta di rito magico per cui scomparso dalla vista il tema, scomparirebbe anche l’intera sua problematica esistenza. 

Tecnica molto usata nelle nostre scuole, per non dire ricorrente, il braghettonismo non pretende purezze e santità, limitandosi a dichiarare in pubblico una cosa lasciando che poi se ne faccia un’altra in privato, purché non si dia mai scandalo. 

E’ forse il braghettonismo, più che il puritanesimo, ad avere circondato di silenzio la pittrice e scultrice Judy Chicago non ancora conosciuta nelle nostre latitudini opache, costringendo nell’oblio la sua opera The dinner party, in installazione permanente al Brooklyn Museum di New York. 




Il lavoro fu realizzato tra il 1974 e il 1979, con lo scopo esplicito di costruire una genealogia forte al femminile. Si tratta di un banchetto cerimoniale, installato su un tavolo triangolare a forma equilatera, per un totale di 39 posti a sedere, 13 per ogni lato, realizzato con l’aiuto di più di 400 volontarie tra ceramiste, pittrici, scultrici e ricamatrici. 




Opera sociale, dunque, da contrapporsi alle false opere individuali di cui è piena la storia delle arti occidentali.

Ognuno dei posti è simbolicamente dedicato a una donna famosa nella storia ma anche nella mitologia, dalla dea mesopotamica Ishtar a poetesse come Emily Dickinson a personaggi storici come Eleonora d’Aquitania. Il tavolo è adornato da piatti, calici d’oro, posate, tovaglioli ricamati e arazzi d’ogni tipo. 



La pietra dello scandalo, che ne fa un’artista in certi ambienti solo tollerata, sta nell’avere rappresentato nei piatti decorati in porcellana cinese le vagine delle donne famose, cosa che procurò ai suoi tempi un’accusa di pornografia all’opera. I piatti hanno forme di farfalle, vulve, fiori esotici e piante vegetali.


Il nome di altre 999 donne famose sono iscritti in oro nel pavimento di piastrelle bianco su cui poggia il tavolo, battezzato dalla stessa artista con il nome di “ il pavimento dell’eredità”. 




Il triangolo è il simbolo dell’uguaglianza e della vagina, mentre il numero 13 allude con ogni probabilità all’ultima cena di Gesù. Nell’intento dell’artista, si tratta di costruire una genealogia al femminile che passi dalla His-story, dalla storia di lui, alla Her-story, la storia di lei. 




Da vedere, insomma, percorrendo certe terre, oltre il braghettonismo, illuminate da una sorta di tolleranza che consente di comprendere come ogni essere umano, per sua natura, sarà sempre una pietra di scandalo. 


venerdì 30 agosto 2013

La tasca tascabile




La sottile linea rossa tra lecito ed illecito, tra reato e cultura, è terreno fertile dove nasce una fauna incontaminata. E’ una frontiera attraversata da trafficanti di droga, evasori fiscali, fuggitivi d’ogni risma che spesso viaggiano indisturbati. Su questi labili confini si collocano anche opere osannate come la misoginia della Bisbetica domata o l’antisemitismo del Mercante di Venezia. Di frequente arriva là dove meno te l’aspetti, dentro l’ordine costituito. In quella forma di letteratura che sono i testi legislativi, dove la legge si apre all’antilegge rivelando una natura curvilinea più che retta, da intendersi non solo moralmente. 

Non parlo di leggi luciferine come la Bossi-Fini o come la riforma scolastica targata Gelmini. Nel senso che esse sono perfettamente logiche nella loro inumana irrazionalità, ma di leggi nate dagli intenti più operosi. 

Paolo Berdini, nel suo bel libro “ Breve storia dell’abuso edilizio”, parte dall’osservazione che l’abusivismo in Italia è stato possibile non solo grazie ai vari condoni e sanatorie, ma a causa anche di una serie di leggi in cui si proclamava il divieto di fare qualcosa e contemporaneamente si lasciava aperta la strada per aggirare la legge con il consenso dell’autorità. Come nel caso delle piscine “ amovibili” della Sicilia, episodio seriamente pirandelliano. 

Nel gennaio del 2002, in Sicilia, la giunta regionale guidata da Cuffaro approva una legge dal titolo più che nobile “ Norme per il riordino delle coste siciliane”. Si tratta di una sanatoria con cui si consente il condono di edifici costruiti entro 150 metri dalla costa, anche se si afferma sarà vietato “ d’ora in poi”. A questo punto, però, la legge non può fare a meno di varcare la solita frontiera del legittimo, già che in un successivo articolo essa consente la realizzazione entro gli stessi metri di “ attrezzature e servizi necessari alla fruizione del mare” come, appunto, alberghi, piccoli ristoranti, bar e piscine, definiti dall’assessore Bartolo Pellegrino, intervistato dal crudele, ma non solito, giornalista di turno, in una sorta di linguaggio cubista, “ strutture amovibili”. 

Non inamovibili o mobili, si badi. Amovibili, per loro natura al di là di ogni meccanica e moto più o meno perpetuo. 

Una categoria metafisica priva di gravità. 

Come a dire che l’illecito ha i suoi fiori rari, una sua vegetazione poetica e nomenclature botaniche riconoscibili a distanza, come l’agibilità politica, che lascia intendere un salire e scendere politico per le altrui scale, un traversare politico, un muoversi, viaggiare, tornare e ripartire politico, e poi un sedersi, alzarsi, scostarsi e persino abbracciarsi politico che sono “ altro” dai movimenti simili dei comuni umani. 

E che tuttavia sorprende nella sua suprema vacuità, come proclamare la tasca tascabile, la scala salibile e il capitare capitabile. L’ultima frontiera della pubblicità applicata in politica, l’avamposto della nientità linguistica.

martedì 27 agosto 2013

venerdì 9 agosto 2013

Il corpo isterico



Girovagando, sperduti e attenti nel mare internautico, come il protagonista di Itaca della poesia di Kavafis, vi imbatterete forse tra le fotografie di Augustine, una delle isteriche più famose della Salpêtrière, internata nell’ospedale femminile di Parigi nel 1875 e diretto allora dal neurologo Jean-Martin Charcot. 

Augustine venne fotografata ed esposta alla camera oscura dal dottore, le pieghe del vestito ben curate con un vezzo da modella, in pose laccate dal dubbio realismo che dovrebbero mettere in risalto il prototipo della donna isterica, la grande simulatrice, la teatrante istrionica, la clownesca follia incarnata da moltissime donne, che ha trovato in testi letterari e artistici, non ultimo il ciclo Hysteria della scultrice Louise Bourgeois, la sua sovraesposizione estetica. 

L’isteria è questione difficile. Dal 2000 essa non esiste più come disturbo clinico nel DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) essendo stata scomposta in manifestazioni differenti, suddivisa in vari sintomi. Questo non vuol dire che sia cessata la sua esistenza, ma piuttosto, come sostiene lo stesso DSM, che il sintomo isterico si modella adattandosi ad ogni cultura, continuando il suo processo mimetico al mutare dei paradigmi medici e delle richieste sociali. 

In altre parole la sua natura si caratterizza per una dinamica innata in grado di identificarsi con le aspettative dei medici. Il sintomo isterico abile nel suo mimetismo, proteiforme nella sua condotta, innatamente teatrale, cerca il sintomo patologico maggiormente accettato in una determinata epoca e in uno specifico contesto sociale, cercando di adattarsi alle teorie cliniche dello scienziato perché possa essere ascoltato e curato. 

Il corpo isterico, dunque, denuncia come uno specchio capovolto i modelli che lo scienziato, l’analista, il neurologo, lo psicologo hanno cercato di volta in volta di imporre alla donna. In epoche trascorse, quando ci si aspettava sottomissione e ubbidienza dalle donne, non erano rari i casi di paralisi isterica, quando la sessualità era argomento proibito per le donne né rientrava nella loro educazione, molte manifestazioni isteriche tese al controllo delle pulsioni sessuali furono celebrate come manifestazioni di santità, vedi Caterina da Siena. Oggi, epoca nella quale gli ideali di bellezza e il feticismo della magrezza imperano nell’educazione delle ragazze, si associa con l’anoressia, la bulimia e altri disturbi alimentari. 

Il corpo isterico differisce in parte dal corpo cyborg di cui parla la filosofa Haraway, i corpi in cui natura e tecnologia si innestano, con una estensione che va dai bypass al semplice uso dell’ascensore, mettendo in crisi la pretesa naturalità dell’uomo, che è al contrario, secondo la pensatrice, pura costruzione culturale. Al contempo è qualcosa di diverso dai corpi-clinica, cioè dai corpi mantenuti nella fase della stasi della malattia perché fonte di reddito certo per il mercato farmaceutico, ma anche dai corpi-laboratorio (mi viene in mente il protagonista del film documentario Super size me in cui si esplorano le conseguenze dell’alimentazione McDonald’s sul corpo di un volontario). 

L'isteria sembra piuttosto denunciare il lato oscuro delle scienze, la loro natura performativa quando più portatrici dei pregiudizi di un sistema sociale. 

E’ come se la scienza, in quanto tassonomia, elenco delle caratteristiche delle più diverse infermità, finisse con l’aspettarsi quelle manifestazioni e non altre che il sintomo isterico è disposto a non eludere, proprio perché solo in questo modo può essere visto, toccato e riconosciuto. Un elemento che ha spinto la psicologa argentina Dio Bleichmar a parlare di “ femminismo spontaneo” dell'isteria, in quanto la natura femminile soffrirebbe per il mancato riconoscimento del suo genere, in un ordine patriarcale che lo considera inferiore, un oggetto. L’isteria sarebbe così solo un modo per ottenere riconoscimento. Una sorta di protesta, tramite un uso del corpo che si fa linguaggio, dramma, infine palcoscenico. 

Le foto di Augustine dunque lasciano un’impressione indefinibile. Più di un dubbio, trasmettono l’inquietudine che il corpo isterico sia forse una delle denunce più dolorose di una società portatrice di istanze di schiavitù e assoggettamento che si trasformano in malattie, quindi in gerarchie mediche destinate a curare le malattie che lo stesso sistema ha prodotto, ma senza mai proporsi di guarirle del tutto. 

In un cerchio infernale, dove le scienze non sono angeliche ma nate all’interno di sistemi sociali non sempre favorevoli alle donne, che l’arco isterico esprime come uno stigma.