mercoledì 18 dicembre 2013

Teologia femminile




Esiste la teologia femminile, ebbene si. Ecco un piccolo assaggio. Sono debitrice a tre grandi teologhe italiane per questa riflessione, Elizabeth Green, Lidia Maggi e Letizia Tommasone. Buone feste, a risentirci a gennaio. 

La storia delle progenitrici di Gesù riserva sorprendenti scoperte. L’albero genealogico di Gesù, viene riportato in linea femminile al principio del vangelo di Matteo (Mt.1,17). Le genealogie sono piccoli discorsi teologici nei vangeli, non una banalissima e noiosa lista di nomi. Matteo vi enumera molte donne importanti, tra queste Tamar, Racab, Betsabea, infine Rut che, essendo una moabita, era discendente di una delle figlie di Lot. Queste donne hanno avuto una vita straordinaria e complessa. 

Tamar, per esempio, era la moglie di Er. Quando questi morì, fu data in sposa a suo fratello Onan. Ma anche lui conobbe presto la stessa sorte di Er. Tamar a questo punto fu promessa al terzo fratello, Sela, così come previsto dalle leggi del levirato, ma Giuda, padre di Er e Onan, per nulla entusiasta dell’idea di vedersi privato probabilmente anche del terzo figlio, si oppose all’applicazione della legge. La storia sarebbe finita qui se Tamar invece di arrendersi, mostrandosi remissiva così come comandavano le regole del tempo, non si fosse opposta all’arbitrio del suocero. 

Tamar decise infatti di sfidarlo e così divenendo la vera protagonista del racconto cercò di risolvere la situazione in modo piuttosto originale. Si finse una prostituta e approfittando di un viaggio di lavoro del suocero a Timna, dove era prevista la tosatura delle pecore, si coprì con un velo, poi si sedette ad aspettarlo lungo la via. Dopo il loro rapporto, Tamar pretese da lui alcuni pegni: il sigillo, il cordone e il bastone che Giuda aveva in mano. E tanto avvenne. 

Tamar, rimasta incinta di lì a poco, non fece nulla per nascondere la sua situazione, così la notizia arrivò alle orecchie del suocero il quale prontamente comandò di bruciarla viva, accusandola di prostituzione. Ma qui, come nel migliore dei feuilleton, accade l’imprevisto: Tamar gli rivela che è rimasta incinta dell’uomo a cui appartengono alcuni oggetti che ha conservato ed ecco apparire il sigillo, il cordone e il bastone. 

Come si vede dal racconto, il comportamento di Tamar è piuttosto difficile da comprendere in base ai giudizi della nostra morale, per la quale una donna, che si finge una prostituta in modo da avere un figlio per di più con il suocero, difficilmente risulterebbe una donna esemplare. Il che invece è del tutto legittimo secondo l’etica dell’Antico Testamento, per il quale ciò che conta è lo shalom familiare, cioè la trasmissione della vita. Tanto che lo stesso suocero alla fine dovrà ammettere di Tamar “È più giusta di me, perché non l'ho data a mio figlio Sela”, annullando in questo modo la condanna per adulterio che pendeva minacciosa sul capo della nuora. 

Tamar è dunque esemplare secondo l’etica dell’Antico Testamento perché si comporta rispettando le regole del levirato e perché si propone come scopo essenziale la vita e la salvaguardia della discendenza, finendo così con il garantire gli interessi dello stesso suocero. Questa caratteristica non è solo di Tamar, ma a ben vedere è ugualmente condivisa dalle altre antenate di Gesù. Racab, per esempio, era una prostituta di Gerico che nascose le due spie di Israele mandate da Giosuè in quella città così salvandogli la vita. Quanto alle figlie di Lot, il loro desiderio di assicurare una discendenza al padre si spinse fino all’incesto. 

Ciò che possiamo dire delle antenate di Gesù è che esse appaiono come delle donne fortemente motivate, amanti della vita e decise a difenderla fino a spingersi ai limiti di quanto umanamente loro consentito. Rut era una straniera (una delle categorie più disprezzate dagli ebrei del tempo), Betsabea un’adultera, Tamar si finse prostituta, Racab lo era veramente, quanto alle figlie di Lot erano delle incestuose, ma se hanno meritato un posto nella Bibbia è perché il profondo desiderio di generare la vita, la volontà ferma di trasmetterla nonché l’istinto femminile a proteggerla le ha rese esemplari agli occhi di un popolo. 

Da queste donne discende Gesù, da loro riprende l’amore per la vita, ma attribuendogli un significato profondamente diverso. La famiglia non sono fratelli e sorelle ma la comunità con la sua pratica del bene, non è fecondo chi trasmette vita alle nuove generazioni ma chiunque senza distinzione di popoli, generi, razze e orientamento contribuisce alla vita dignitosa dell’altro. Chi ne difende i diritti, chi combatte contro la sua povertà, fame e miseria

domenica 8 dicembre 2013

Medicina e chimere





Per quanto mi sforzi non riesco a comprendere per quale ragione William Hogarth, il pittore del celebre ciclo Marriage à-la-mode, esposto alla National Gallery di Londra, venga considerato un autore satirico e non piuttosto tragico. Il ciclo del Marriage racconta la storia di un matrimonio di interesse tra il figlio di un conte in crisi economica e la figlia di un ricco commerciante. Hogarth illustra la depravazione e decadenza di un legame così formato con sei tavole, tra cui la terza: The inspection. Qui si descrive la visita del conte nel gabinetto di un medicastro dopo aver contratto la sifilide. Al suo fianco, la giovane amante bambina, da quel che si può desumere, contagiata anche lei. Il conte appare quasi divertito dalla situazione porgendo la sua scatoletta di pillole al medico, la bambina al contrario sembra spaurita e persino ignara, del tutto in contrasto con l’ambiente di mummie, scheletri, ossa, teste di giganti e corpi imbalsamati che la circonda. C’è un’immensa pietà, una grande indignazione in questo quadro, non so dirlo in altro modo, ma anche una riflessione sarcastica sul rapporto tra scienza, sesso e denaro. 

La letteratura scientifica, letteratura intesa come creatrice di miti e simboli intendo, è davvero un capitolo interessante. In generale il suo linguaggio, quasi sempre di tipo ipotetico, che ragiona sul dubbio, evita la certezza assoluta fino a prova contraria, ha finito con il produrre suo malgrado una periferia di chimere e creature fantastiche, tra cui la cura più femminile al mondo, fonte di progresso ed emancipazione per le donne: la pillola contraccettiva. 

Le tesi che difendono o che invece accusano la pillola di provocare danni collaterali si inseguono e si contraddicono tra di loro. Ragione vuole che si vada direttamente ad una delle sue fonti, i foglietti illustrativi per esempio, quegli utili allegati ai medicinali che descrivono applicazioni e controindicazioni di un farmaco. Chiamati “ bugiardini” in Italia. Non so se sia ironia del caso. Fate voi. 

Le controindicazioni contenute in questi simpatici foglietti, tra le marche più note di contraccettivi orali, vanno dal rischio di sviluppare un coagulo di sangue venoso (trombosi venosa), in alcuni casi mortali, dicono proprio così” mortali”, all’infarto miocardico, l’attacco ischemico transitorio, le embolie polmonari, i disturbi alle ossa e così via allegramente. Abbondano termini come “sembra”, pare, in teoria, non esiste consenso unanime, può causare, in alcuni casi, a volte. Stile possibilista, si diceva. 

Non ci sono comunque dubbi sul fatto che pillola sia un farmaco che altera un sistema naturale, con effetti positivi (evitare gravidanze indesiderate) ed inevitabili controindicazioni. 

Ciò di cui si ragiona però non è il ritorno al decotto di prezzemolo, ma per quale motivo siano le donne a doversi interamente assumere i rischi collaterali dell’assunzione di un farmaco, come se fosse una faccenda loro esclusiva e privata la fecondità. Non so, prendete la Bayer che aveva presentato la sua pillola Yasmin, un nome dolce e femminile, come la pillola più sicura, leggera e con meno effetti collaterali di quelle delle generazioni precedenti, a cui la Food and Drug Administration dopo aver esaminato più di 835 mila donne ha ordinato di potenziare gli avvisi di rischio di embolia. Bayer che ha dovuto pagare 142 milioni di dollari di risarcimento nel 2012 alle utilizzatrici americane delle sue pillole anticoncezionali Yasmin e Yaz.

E’ un pensiero ingenuo credere che lo stato di subordinazione ed inferiorità in cui venivano e vengono tenute le donne abbia come suo unico teatro d’azione la famiglia e il lavoro, escludendo per esempio il campo della salute. Se una società è ammalata, giusto per rimanere tra metafore pertinenti, è ben difficile che la malattia sociale non coinvolga tutti gli altri ambiti. Medicina inclusa.

Nel migliore dei casi, poi, lo stile medico delle documentazioni si basa su argomentazioni statistiche. Ragiona sui grandi numeri, non sulle piccole percentuali. Tradotto in altra lingua: la grande percentuale di effetti positivi, contro il piccolo, insignificante, prossimo a zero numero di rischi. Basterebbe questo a farci nutrire qualche dubbio se sia il caso di continuare o meno a percorrere una strada, di cui la scienza non può garantire l’assoluta mancanza di rischi per la salute. Non può, perché non sarebbe scienza. La scienza deve aprirsi alla continua possibilità di essere falsificata, l’assoluta certezza non esiste nel suo ambito. 

La pillola invece è una strada considerata non solo la via maestra della contraccezione ma prescritta ormai come una vera e propria autostrada, visto l’uso e l’abuso con cui viene somministrata anche alle donne adolescenti. Sulla contraccezione maschile, nulla invece si sa. Scarsa documentazione, poche ricerche, molte delle quali interrotte al primo, lontanissimo segno di malore da parte dei pazienti. 

Dopo cinquant’anni dall’invenzione della pillola, una strada di progresso ma certamente anche asfaltata da effetti collaterali e morti femminili, ci si aspetterebbe qualche riflessione su un medicinale che inganna il cervello, altera l’ovulazione, blocca la fertilità e per causa di 4/5 giorni al mese di reale rischio di gravidanza costringe le donne a prendere una pillola per venti e trent’anni con notevole profitto da parte delle case farmaceutiche. Sui cui interessi economici e reale obiettività scientifica taccio.




lunedì 2 dicembre 2013

Traduzioni e straduzioni




Il geografo ed esploratore tedesco Humboldt (1769-1859), nel suo Breviario del Nuovo Mondo, narra un gustoso caso che ben spiega le conseguenze di un’errata traduzione linguistica. 

La lingua spagnola, pur nella sua varietà in grado di tratteggiare riccamente boschi e selve del continente americano, adottò il termine monte per riferirsi ad una gran parte delle pianure delle nuove latitudini. La conseguenza fu che molte carte inglesi, modellate sulla famosa mappa spagnola conosciuta con il nome di Cruz y Olmedilla, finirono con il trasformare i boschi del cacao, o montes, in vere e proprie cordigliere. Come se non si sapesse, aggiunse caustico l’esploratore nel suo saggio, che il cacao viene coltivato solo nelle zone pianeggianti più calde. Insomma, come a dire, che il buon senso dovrebbe funzionare da zenith principale là dove altre bussole perdono il loro nord. 

La diatriba se sia possibile o no tradurre da un’altra lingua senza tradire lo spirito del testo, anche per ragioni come quelle dell’episodio di Humboldt, mi vede assolutamente dalla parte di chi sostiene l’assoluta infedeltà delle traduzioni. A volte per colpa della sufficienza dei traduttori, altre per colpa del contesto. Gli esempi sulla goliardia, chiamiamola così, di certe traduzioni si sprecano, uno per tutti quello contenuto in un’edizione Adelphi di Miracolo a colazione della poetessa Elizabeth Bishop. 

Siamo nella poesia in cui la scrittrice immagina la vita affannata della sua amica a New York tra uno spettacolo e l’altro, mentre prende un taxi nel cuore della notte, in tutta fretta, aggiungendo “ as if to save your soul”, letteralmente “come se dovessi salvare la tua anima”. Qualcosa che si avvicina al nostro “ come se avessi l’anima in pena”, ma certamente mai al pregiato “ per prendere un fugone” con cui ci inebria il traduttore. Proprio così: un taxi nel cuore della notte/per prendere un fugone. Lì per lì ho pensato ad un animale stranissimo, il fugone, parente del visone siberiano. 

E che dire del terrificante “pederasta” con cui Carlo Bo ci delizia nell’edizione Garzanti delle poesie di Garcìa Lorca, in un componimento che pure il più astruso antilinguista coglierebbe nella sua delicatezza, già che il titolo contiene un diminutivo “ Canción del mariquita”, sì, el mariquita, un po’ come dire il femminiello napoletano, non certo il wagneriano soprassalto “ La canzone del pederasta” con cui Carlo Bo affonda l’intera poesia per non dire l’esistenza del poeta andaluso. 

Mi fermo qui. Aggiungo che a volte ho dovuto cercare per anni il corrispettivo di certe parole spagnole e che trovarlo mi provoca un autentico piacere linguistico che non so a quale sentimento associare in periodi di divampante corruzione semantica, oltre che politica e morale, come sono i nostri tempi. Si vive, è certo, come una sorta di gratitudine. Come se due scale, all’improvviso, in un punto si incontrassero. 

Certa, come sono, che le parole hanno due conseguenze se usate male. Nel caso delle traduzioni un incontenibile e spassoso genere di nuova comicità, nel caso della politica infermità e dolori di spirito, schiavitù psicologiche e trafitture mentali che meriterebbero un intero capitolo della medicina. 

Non so, per esempio, quel termine “ sinistra” in bocca a Renzi. La cui fedele traduzione si ignora, sostituita da un annacquata, scialba, inetta parola che somiglia alla sua origine come la cassapanca all'albero.