domenica 10 novembre 2013

I mangiatori d'oppio




Si narra che Annibale, ad un passo dal distruggere Roma, fece riposare le sue truppe presso Capua, in attesa di rinforzi dalla madre patria, matrigna assai nel suo caso, che mai giunsero. Il senato cartaginese, geloso del suo genio e delle sue vittorie, lo lasciò nel sud Italia per dodici anni, senza alcun aiuto. Iniziò così la vera o leggendaria epoca degli ozi di Annibale, delle sue mollezze, in una Capua dipinta, da chi vinse romanamente, come una sorta di città tenutaria di bordelli e di innominabili piaceri. La storia, comunque, ha di queste improvvise attese, che si prolungano, non si sa bene in che termini. 

La letteratura, per risonanza, non poteva lasciarsi scappare il tema della smemoratezza generale, dell’oblio in cui certe volte sembrano cadere gli eventi o la loro parvenza. Il poeta inglese Tennyson nel poema “ The lotos eaters” narra dell’arrivo di Odisseo e dei suoi compagni di ventura in una terra dove un eterno crepuscolo sembra regnare, come una meridiana ferma e fissa. L’isola è popolata dai mangiatori d’oppio, creature dagli occhi miti e colmi di malinconia, dal colorito pallido ed esangue che offrono i fiori del loto ai marinai. Una volta assaggiato il fiore, i compagni di Odisseo si rifiutano di seguirlo verso Itaca, dichiarando la loro volontà di restare nelle terra delle penombre, lungo la spiaggia a sognare, ascoltando il battito del loro cuore. Nell’inerzia assoluta.

La stessa sensazione di aria viziata, di intenti abbattuti da volontà che si scorda, l’ho avuta leggendo, in mancanza di altra autentica letteratura, i verbali degli interrogatori di Carmine Schiavone, reperibili su internet, nel sito di Repubblica. Vi si narra di come la camorra, con il consenso di uno stato per lo più colluso e assente, abbia avvelenato in trent’anni una delle zone più belle dell’Italia, la Campania, sotterrando tra campi e autostrade tonnellate di rifiuti tossici e velenosi. 

Non che non si abbiano sussulti durante la lettura della testimonianza. Un soprassalto, al limite della comicità, lo si prova quando il pentito a pagina 10 della sua deposizione dichiara di avere versato gli introiti del traffico illecito nella casse dello Stato. A quel punto, il presidente della commissione d’inchiesta fa un salto sulla sedia. Dico “fa un salto sulla sedia” nel senso che me lo immagino, in quanto nel verbale non c’è ovviamente nulla che si riferisca ai fuori scena. 

“ Vuol dire nelle casse del clan?” --- lo corregge il presidente (poiché l’autentica letteratura lascia sempre uno spazio all’immagine del lettore potremmo pure immaginare dei puntini di sospensione a questo punto…). 

“ E’ lo stesso, più o meno” --- ribadisce Schiavone (senza scomporsi, verrebbe proprio da pensare).

Presidente, incalzando: “Perché dice che è lo stesso?”.

Schiavone, con tono sicuro: “ La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato…Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan quanto avrebbe forse potuto esistere?”. 

Dunque, non mi riferisco a questi e tal altri spunti di tragica comicità che si leggono tra le righe del verbale, quanto ai mangiatori d’oppio di uno stato, che a venti e passa anni da queste dichiarazioni non hanno mai avviato un piano di bonifica e recupero per una tragedia che è una vera e propria emergenza nazionale che nulla ha da invidiare alle varie Chernobyl o Fukushima. 

E se la letteratura altro non è che realtà meditata, in un mondo che ben volentieri riposerebbe dai nostri nomi, non si può non pensare ai politici che hanno allegramente contribuito alla morte della Campania. Proprio lì, nel momento in cui Schiavone in modo memorabile solleva le mani per mostrarle. Qui non è molto difficile immaginare il gesto, leggero, davanti il viso del presidente, probabilmente inebetito mentre gli dichiara:

“ Ora conduco una vita diversa… Vede che belle mani? Sono tornato alle origini”.

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