sabato 14 settembre 2013

Il narcocorrido



Una critica contaminata non può fare a meno di un capitolo di osservazione sociologica come il narcocorrido. 

Agli inizi del ‘900 in Messico il corrido era una composizione poetica in coplas di otto sillabe, struttura metrica che sta alla poesia spagnola come l’endecasillabo a quella italiana. Si tratta di una sorta di ballata, molto popolare durante la rivoluzione di Emiliano Zapata, che veniva utilizzata da contadini e peones per narrare gli eventi più eclatanti della rivoluzione, in un’epoca in cui non esisteva la televisione e la stampa era privilegio dei pochi che sapevano leggere. Un genere poetico la cui funzione sociale era simile a quella dei vecchi cantastorie delle nostre piazze. 

Con il tempo il corrido, i cui protagonisti erano i grandi leader della rivoluzione impegnati a liberare i territori messicani dall’oppressione dei latifondisti, si è andato evolvendo in quello che oggi viene comunemente chiamato “ narcocorrido”. I suoi protagonisti non sono più rivoluzionari o contadini che difendono le loro terre, ma narcotrafficanti, capi mafia e cartellisti celebrati come autentici eroi, sprezzanti del pericolo della morte, disposti a tutto pur di entrare nel “bisnes” della droga uscendo così dalla miseria, degni di ammirazione per la loro lotta verso il benessere ed un vita degna in un mondo in cui non vi sembrano essere altre alternative che conducano alla prosperità. Uccidere o essere ucciso sono gli estremi eroici in cui si muove l’equilibrismo del narcocorrido. 



Nato verso gli anni settanta, in un periodo in cui il Messico diventava terreno di transito della coca trafficata dal Sudamerica e diretta in quel mercato colossale che sono gli Stati Uniti, il narcocorrido è andato sviluppando le sue tematiche, (fuoristrada carichi di droga, la frontiera, la migra o polizia doganiera, la sierra, il traditore venduto alla polizia, la merce chiamata con nomi di animali, per esempio la capra per indicare la cocaina o il gallo per l’eroina, le armi, le belle donne e gli amici fedeli del trafficante) oggi contando con gruppi di notevole successo come Los Tucanes de Tijuana o Los Tigres del Norte, autori di uno dei narcoccorridos più famosi che è Contrabando y Traiciòn. 


Un caso di eclatante sovvertimento dei valori, di contrabbando letterario in cui si spacciano imprese delinquenziali ed omicidi come atti eroici, che affonda le sue radici nella frontiera della cultura precolombina e indigena, risalendo fino alle foreste dai molteplici rami del realismo magico (la cui data simbolica in America Latina è la pubblicazione di Pedro Paramo di Juan Rulfo nel 1955, viaggio di una voce narrante a Comala, paese che si scopre pieno di anime defunte), territori dove i vivi parlano con i morti e sottilissima, per non dire inesistente, è la linea che separa la vita dalla morte. 

Che la morte sia la compagna costante del narcotrafficante, lo dimostra il culto delle narcotombe, cappelle faraoniche e pantheon cimiteriali, costruiti dai boss mafiosi ancora in vita. In un paese, dove la festa principale, dichiarata Patrimonio dell’umanità non è Natale o Pasqua, ma giustappunto il Giorno dei Morti. 


Curioso fenomeno che pone inquietanti domande su ciò che Edgar Morin definiva “ la democrazia cognitiva”. La democrazia dove il cittadino esercita il diritto di conoscere non solo il particolare, il dettaglio, l’episodio singolo, ma il sistema che tiene uniti i singoli fenomeni. Criterio che applicato al narcocorrido sembra condurre alla conclusione che la conoscenza del particolare, quando ridotta al minimo per causa di miseria, sopruso, assenza dello stato e delle leggi, si radicalizza nella sola conoscenza dei due fenomeni essenziali della nostra esistenza: vivere e morire. Tra i due estremi, non c’è tempo per nulla. 

 Il narcocorrido, peraltro, non dovrebbe destare sorprese in Italia dove un fenomeno simile, rappresentato dal lato oscuro della canzone neomelodica napoletana, esiste già da tempo. Non solo perché la camorra a Napoli è diventata produttrice e casa discografica trasformando la musica in un mezzo per il riciclaggio del denaro sporco, ma anche per testi dal titolo emblematico come “Il mio amico camorrista”, o “Femmena d’onore” in cui, tra le altre cose, i pentiti che denunciano alla polizia vengono definiti “ guappi di cartone”. 

Che dire: di altri, di là della sapienza, di civiltà supreme, davvero resta niente, dove le leggi tacciono e i giusti si perdono tra i sogni.




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