martedì 16 luglio 2013

Penelope non abita più qui




Gira nell’oceano internauta un breve saggio intitolato “L’emigrazione ecuadoriana: un’analisi di genere” di Chiara Pagnotta. 

La studiosa vi afferma che l’emigrazione ecuadoriana verso l’Europa è iniziata soprattutto dopo la crisi economica del 1998 e si è diretta prevalentemente verso la Spagna e l’Italia. In Italia si è concentrata in tre città (Roma, Milano e Genova) divenendo un fenomeno urbano. 

Ciò che caratterizza questo tipo di migrazione è il fatto di essere prevalentemente femminile. Le donne viaggiano da sole, poi in un secondo periodo, ma non sempre, la famiglia si ricostituisce con l’arrivo dei figli e del marito. Si tratta di una migrazione che si svolge tra “ due luoghi e che scompone e ricompone i ruoli e le relazioni del femminile e del maschile”.

La migrazione, sottraendo in parte le donne al controllo familiare, rappresenta infatti una sfida al modo tradizionale di intendere il nucleo domestico. “Contemporaneamente, attraverso il canale d’informazione che si sviluppa per mezzo della rete migratoria, le donne, lontane dalla sorveglianza dei familiari, si trovano, inserite all’interno di uno strumento di controllo comunitario ricreato nei paesi d’immigrazione”, in questo modo, tra il paese d’origine ed i differenti paesi di arrivo viaggiano le notizie ed i pettegolezzi riportati ai mariti sulla condotta sessuale delle mogli. 

Così viaggiare è non viaggiare, emigrare non altera il dovere della cura e l’educazione dei figli, che continuano ad essere pensati come compiti delle donne-madri anche nella migrazione. D’altra parte la conquista di un maggior peso economico non modifica le relazioni di potere tra i generi. 

Spesso il marito permette alla donna di partire perché intravede il guadagno economico che gli deriva dalle rimesse inviate dalla moglie. In altre situazioni accade che la distanza non modifichi le relazioni violente di coppia, ma anzi, le stesse donne tendono a ricrearle nel paese di arrivo. Segno che i confini della famiglia per le donne sono molto più ampi che per gli uomini. 

Sbaglieremmo, però, a pensare che si tratti di una caratteristica esclusiva dell’Ecuador, poiché al contrario investe molti flussi migratori che trovano impiego nel settore dell’assistenza e in quello delle pulizie (taccio per il momento quello del sex business) al punto da spingere gli studiosi a parlare di femminilizzazione dell’emigrazione. 

Questo modo di viaggiare ha pochi corrispettivi nel mondo del mito, più che a Ulisse rimanda ad Enea il quale fuggendo da Troia si carica il padre Anchise sulle spalle. E’ un modo di andare e disandare tragico come quello del Vecchio Marinaio di Coleridge, costretto per la sua fatale maledizione a ripetere lo stesso racconto ad ogni viandante, un racconto che nel caso delle donne si traduce di frequente in una storia di violenza e di soprusi. 

Tuttavia la peripezia dei luoghi al femminile è qualcosa di più e qualcosa di meno, dove le metafore e le figure retoriche della letteratura, che è solo un modo per dire la storia, sono come al solito silenti. 

Il corpo delle donne, sottoposto allo sfruttamento economico e alla mercificazione, diventa uno specchio del viaggiare paralizzato delle culture occidentali, d'una società maschile e capitalista che replica se stessa in ogni luogo. Società di uguali case, di medesimi negozi, di ruoli identici nel cuore delle regioni più lontane. 

Qui e là dove si spostano gli oggetti, non più le persone. Presso le nostre dimore, dove soltanto le cose sono pienamente e di diritto erratiche: i capitali, le fabbriche, le armi. E le tazze di porcellana.

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