Da
qualche anno, per lungo andare e frequentazioni discutibili con i libri, sarà
capitato a qualcuno di patire lo sperpero maligno, quel particolare stato
dell’animo che ti inclina a chiedere a cosa sia servito studiare i lirici greci
o metti la letteratura russa. Questa sovrabbondanza, così difficile da
collocare nel tuo piccolo selciato.
Se questo qualcuno poi è un insegnante la situazione
peggiora, perché non ci sarà studente, non ci sarà lezione in cui questa domanda
non assumerà le proporzioni del cadavere nella stanza del dramma di Ionesco. Andrà
crescendo ogni giorno, fin quando non riempirà di funghi e muffa ogni parete.
I
critici letterari si tengono lontani dal quesito, troppo impegnati a passeggiare
per i boschi narrativi o a raccontare le prodezze della sineddoche in Balzac.
Un’accademia ha costruito un mercato esclusivo, per pochi eletti, che rende
piuttosto bene e che crea status. Dove la letteratura, quando serve, è un
microscopio di passioni tristi e le antologie una clinica per cronici depressi.
Per me, un solo giorno trascorso a scuola così discettando e ne uscirei viva come
il corpo di Cesare tra le mani dei sicari. Motivo non indifferente per cui la
critica mi diventa meticcia e pasticciata. Contaminazione, se vi piace. Un luogo che si attraversa, un solo paesaggio
urbano e globalizzato, dove non è possibile separare le favole di Esopo
dall’abuso edilizio, dove le rime baciate si comportano come rifiuti tossici,
la metonimia vuol dire zingaro e frontiera.
Davanti ai miei studenti mi è più
incline la critica dei misti, che predilige la tradizione orale a quella
scritta. Funziona come i baracchini dello street food che i ragazzi conoscono
per messaggio, perché altri ne parlano bene, perché un amico li frequenta. Passando parola. Si vuole sapere che ti ha provocato
un testo, che nutrimento ne hai avuto, il qualcuno di significativo che vi hai
conosciuto o l’avventura che ti ha cambiato per sempre la vita. Il testo ha
mille testi, perché mille e più sono le sue letture.
Di voce in voce il suo
punto di partenza non è il brano narrativo, ma il narcotraffico e gli abusi del
cibo. E’ critica impura, presenta lo stile di Flaubert come un eccentrico
esempio di bulimia alimentare, le poesie di Tennyson come un vero e proprio
caso di coltivazione da oppio. Ben lontana da trattare la letteratura come se
fosse un’isola, astrazione, una deriva matematica.
Perché poi la meraviglia che
gli studenti non amino la scuola? Architettura divisa e frammentata in
compartimenti stagni: l’ora di chimica, di religione, di fisica, di inglese. L’identità
si spezza, perché non facciamo critica ecologica, praticantato in grado di
invadere i campi semantici. Un modo di leggere che non usi più la fisica euclidea,
di linee parallele e che mai si incontrano, per descrivere i fenomeni
letterari, ma teoremi geometrici, casi botanici, eventi politici e pratiche
economiche.
L’analfabetismo culturale, dopo quello di base (saper leggere e
scrivere) e quello lavorativo (avere competenze in grado di svolgere una
professione), è stato definito come l’incapacità di interpretare e capire il
proprio ambiente. E’ analfabetismo culturale non saper comprendere una sigla
come CGIL o ignorare cosa sia una commissione parlamentare. E’ da questi dati
oggettivi che bisogna partire per capire qualcosa di Socrate. Non il contrario.
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