lunedì 2 dicembre 2013

Traduzioni e straduzioni




Il geografo ed esploratore tedesco Humboldt (1769-1859), nel suo Breviario del Nuovo Mondo, narra un gustoso caso che ben spiega le conseguenze di un’errata traduzione linguistica. 

La lingua spagnola, pur nella sua varietà in grado di tratteggiare riccamente boschi e selve del continente americano, adottò il termine monte per riferirsi ad una gran parte delle pianure delle nuove latitudini. La conseguenza fu che molte carte inglesi, modellate sulla famosa mappa spagnola conosciuta con il nome di Cruz y Olmedilla, finirono con il trasformare i boschi del cacao, o montes, in vere e proprie cordigliere. Come se non si sapesse, aggiunse caustico l’esploratore nel suo saggio, che il cacao viene coltivato solo nelle zone pianeggianti più calde. Insomma, come a dire, che il buon senso dovrebbe funzionare da zenith principale là dove altre bussole perdono il loro nord. 

La diatriba se sia possibile o no tradurre da un’altra lingua senza tradire lo spirito del testo, anche per ragioni come quelle dell’episodio di Humboldt, mi vede assolutamente dalla parte di chi sostiene l’assoluta infedeltà delle traduzioni. A volte per colpa della sufficienza dei traduttori, altre per colpa del contesto. Gli esempi sulla goliardia, chiamiamola così, di certe traduzioni si sprecano, uno per tutti quello contenuto in un’edizione Adelphi di Miracolo a colazione della poetessa Elizabeth Bishop. 

Siamo nella poesia in cui la scrittrice immagina la vita affannata della sua amica a New York tra uno spettacolo e l’altro, mentre prende un taxi nel cuore della notte, in tutta fretta, aggiungendo “ as if to save your soul”, letteralmente “come se dovessi salvare la tua anima”. Qualcosa che si avvicina al nostro “ come se avessi l’anima in pena”, ma certamente mai al pregiato “ per prendere un fugone” con cui ci inebria il traduttore. Proprio così: un taxi nel cuore della notte/per prendere un fugone. Lì per lì ho pensato ad un animale stranissimo, il fugone, parente del visone siberiano. 

E che dire del terrificante “pederasta” con cui Carlo Bo ci delizia nell’edizione Garzanti delle poesie di Garcìa Lorca, in un componimento che pure il più astruso antilinguista coglierebbe nella sua delicatezza, già che il titolo contiene un diminutivo “ Canción del mariquita”, sì, el mariquita, un po’ come dire il femminiello napoletano, non certo il wagneriano soprassalto “ La canzone del pederasta” con cui Carlo Bo affonda l’intera poesia per non dire l’esistenza del poeta andaluso. 

Mi fermo qui. Aggiungo che a volte ho dovuto cercare per anni il corrispettivo di certe parole spagnole e che trovarlo mi provoca un autentico piacere linguistico che non so a quale sentimento associare in periodi di divampante corruzione semantica, oltre che politica e morale, come sono i nostri tempi. Si vive, è certo, come una sorta di gratitudine. Come se due scale, all’improvviso, in un punto si incontrassero. 

Certa, come sono, che le parole hanno due conseguenze se usate male. Nel caso delle traduzioni un incontenibile e spassoso genere di nuova comicità, nel caso della politica infermità e dolori di spirito, schiavitù psicologiche e trafitture mentali che meriterebbero un intero capitolo della medicina. 

Non so, per esempio, quel termine “ sinistra” in bocca a Renzi. La cui fedele traduzione si ignora, sostituita da un annacquata, scialba, inetta parola che somiglia alla sua origine come la cassapanca all'albero. 

Nessun commento: